«Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici, ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali». Inizio così questo mio primo e ultimo articolo del 2016, con questa citazione di cui scriverò poi la fonte. E con una domanda: chi sono queste persone? Provate a indovinare. Una di loro potrebbe essere Jamila, che viene dalla Siria e che ha visto suo marito e suo figlio morire sotto le bombe oppure Samira, che ha solo tre anni ed è arrivata in Italia dalla Somalia aggrappata alla gonna di sua madre in un barcone semi distrutto. O Kamal, approdato dal Sud Sudan, dopo un viaggio lungo anni, che, nonostante gli aiuti offerti, vuole continuare a convivere con il suo dolore e i suoi ricordi. O Anush dall’Armenia, che con la sua famiglia prova a ricostruirsi una vita in Italia. Ma potrebbe essere anche Daoud, che dall’Afghanistan ha viaggiato sotto un camion per riuscire ad arrivare nella sua sognata Europa. Potrebbero essere tutte quelle storie che vi ho raccontato e tante altre che affronto quotidianamente e che mi fanno porre mille domande su vite distrutte o piegate dal dolore, su vite interrotte e su vite che sperano ancora in un futuro. E invece ecco qui come prosegue questo estratto: «Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell’Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione» (testo tratto da una relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, ottobre 1912). Ebbene sì, siamo noi, gli italiani, che, sbarcati a Ellis Island, negli Stati Uniti, veniamo considerati come delinquenti, pericolosi per la sicurezza del paese, siamo persone che puzzano e parliamo lingue incomprensibili. Facciamo molti figli e non abbiamo molta voglia di lavorare. Cosa vedete di diverso rispetto a quello che pensa la maggior parte di noi dei migranti che approdano sulle nostre coste e che ci “invadono” quotidianamente? In questo nuovo anno vorrei poter cambiare molte teste, vorrei che anche coloro che non si trovino di fronte alle mie storie facciano qualcosa per un’Italia più accogliente, un’Italia senza paura. Il mio sogno più grande è un 2016 senza guerre. So che ciò non è possibile, purtroppo, e allora lavoriamo insieme per far sì che il nostro sia un paese migliore, partendo dalle idee, dalle emozioni e dalla coscienza. Auguro a tutti voi un 2016 di cuore e sensibilità.
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Rivoglio il mio futuro
Rivoglio la mia vita! Sì, la rivoglio con tutte le mie forze e il mio cuore! Rivoglio la mia piccola e accogliente casa, il mio lavoro da imbianchino, che a volte c’era e a volte no, ma quando c’era mi permetteva di fare un sabato al cinema o una serata al ristorante come una persona normale. Ma ciò che rivoglio più di tutto è lei, la mia dolce principessa bianca e lentigginosa, lei che, svolazzante come una farfalla, riempiva le mie giornate di amore e calore. Rivoglio quella che ormai era diventata una mia seconda patria. Rivoglio la mia Francia e i suoi gentili abitanti, rivoglio la mia Parigi dall’odore di pane e di fiori, la mia luccicante città sulla Senna, che mi ha regalato tramonti di pace e albe sognanti. Qui finalmente avevo trovato la mia dimensione, non mi sentivo più un fuggitivo, uno che deve dimostrare sempre, ogni giorno, di essere un uomo, di avere coraggio e di sperare in un futuro migliore. Qui avevo trovato il mio futuro. E ora lo rivoglio indietro. Quel giorno non dovevo neanche prendere la metro, ma pioveva e non avevo voglia di camminare sotto la pioggia. Avevo un gran mal di testa e l’unica cosa che volevo era tornarmene in fretta a casa e mettermi sotto le coperte. Li ho visti da lontano: due poliziotti. Mi hanno fermato per controllare il biglietto. Poi mi hanno chiesto di vedere il documento. E poi, poi mi hanno portato via. Ho come un buco nero di quello che è successo in quei minuti, nelle ore che sono seguite, nei giorni successivi in cui mi sono trovato sbattuto in un treno, controllato a vista, come un appestato. Destinazione Italia. Ancona. No. Di nuovo qui. Qui dove sono arrivato mesi fa, forse una vita fa, qui dove ho chiesto asilo. Mi hanno spiegato chi sono ora: ho un nuovo nome, sono un “dublinante”. Esiste, infatti, una legge che non conoscevo, il regolamento Dublino, che non permette a una persona che chiede asilo in un paese di andare in un altro paese a costruirsi la sua vita. Sapevo che c’erano tante altre persone nella mia stessa condizione, ora so che stanno anche nascendo dei progetti per aiutare quelli che sono come me. Quelli a cui la vita è stata strappata per la seconda volta. Ero maliano, sono diventato parigino, ora sono un “dublinante”. Ma in realtà sono uno dei tanti e non sono nessuno. Non ho più nulla. Sono di nuovo povero, senza niente in tasca, in Italia a elemosinare un pezzo di pane o una briciola di amicizia. Non ho più un’identità, sono bloccato qui e vorrei fuggire come sono fuggito la prima volta, perché non si fugge solo perché si vede la gente morire, ma anche per dignità, perché non si vuole morire senza nulla, da soli, senza amore. Ogni giorno penso a lei, alla mia principessa, al suo sorriso e alla sua innocenza: mi aspetterà? Sa che un giorno tornerò da lei? Perché tornerò da lei. Non so quando, non so se otterrò i documenti, non so se avrò i soldi per prendere un aereo, un treno, un qualsiasi mezzo che mi riporti a ciò che avevo. Che mi riporti indietro alla mia serenità. Però ci devo provare, altrimenti qui muoio. Qui tornano tutti i miei fantasmi che mi oscurano le notti e non mi permettono di chiudere occhio. Qui non ci sono più le calde luci di Parigi a illuminarmi il cuore, ma solo freddo e paura. Devo di nuovo essere coraggioso e provare a reinventarmi un futuro che ora vedo solo come un miraggio, ma lo devo fare per me e per la mia principessa, per provare a darci un’ultima possibilità.
Indovina chi viene a pranzo
In questi giorni è molto difficile trovare un punto di incontro sulla questione migrazione. Tutti i migranti sono diventati improvvisamente rifugiati, perché loro possono essere accolti, i migranti economici vanno rimandati nei loro paesi. Noi siamo noi, loro sono gli altri, i diversi, quelli che hanno tradizioni lontane dalle nostre e soprattutto religioni diverse. Ma chi l’ha detto che non è possibile incontrarsi e condividere le proprie storie, le proprie vite, anche solo per un giorno? Qualche tempo fa mi è capitato di sentire un parroco dire: “Ma da quando cristiani e musulmani si siedono alla stessa tavola?” Proprio di fronte alla sua chiesa, nel parco di uno stupendo ostello, la scorsa domenica, giorno molto importante per i cristiani, si sono riunite alla stessa tavola 630 persone musulmane, cristiane, atee, buddiste, agnostiche per festeggiare l’id al-adha, una delle due festività del calendario islamico, la festa del sacrificio. Ogni anno, mentre migliaia di persone si recano in pellegrinaggio a La Mecca, coloro che non possono farlo si incontrano per la preghiera comunitaria e poi, dopo aver sacrificato solitamente un agnello con metodo halal, si riuniscono alla stessa tavola consumandolo insieme a verdure e couscous o ad altre pietanze. Nella mia piccola città provinciale, grazie a una efficiente organizzazione, è stato possibile per me e tanti altri partecipare a questo momento importante. Fin dalla mattina, tante mani di diversi colori si sono impegnate nel rendere tutto perfetto: dalla cucina con i fumanti pentoloni da cui spuntavano i sorridenti visi di donne dai veli sgargianti, alle lunghe tavolate su cui come una catena sono stati messi piatti e bicchieri, bottiglie d’acqua e di aranciata. E poi i tappeti nel giardino squarciato da uno spicchio di sole e il muezzin che con una dolce voce musicale ha invitato i fedeli alla preghiera. Con mio figlio in braccio, ho assistito in silenzio a quel momento che univa tanti volti, tante vite diverse e segnate da gioie e dolori. Dopo la preghiera, è arrivato il momento di festeggiare e il re agnello con il principe couscous e le damigelle verdure sono arrivati in grandi piatti da cui ci siamo serviti aiutandoci l’uno con l’altro. I sorrisi, i gesti, gli abbracci, le semplici parole, un’armonia contagiosa che per un giorno mi ha permesso di migrare in luoghi che non conoscevo, in usanze che ho scoperto meravigliandomi e chiedendomi il perché non sia possibile far sì che tutto questo diventi la normalità. Domenica a quella tavola erano sedute persone, senza categorie, senza limiti invalicabili, senza frontiere e senza diversità. Persone che, anche con un italiano stentato, sono riuscite a capirsi perfettamente e ad aiutarsi per un unico scopo comune: riuscire a guardarsi con gli occhi degli altri senza averne paura. Dopo lo squisito pranzo, bocche sorridenti e sguardi complici si sono uniti per foto e ricordi che rimarranno indelebili e poi alla luce di un fresco tramonto settembrino le porte dell’ostello si sono chiuse e il parco è tornato a essere la casa di cinguettanti uccellini. Aver condiviso questa giornata con mio figlio e la mia famiglia è stato molto importante per me, ma spero davvero che sia il primo di una lunga serie, che sia una piccola luce in un cielo nuvoloso, un cielo che possa finalmente aprirsi e rivelare tutto ciò che ormai non è più altro da noi.
Un bambino dai capelli neri e la maglietta rossa
Un bambino dai capelli neri e la maglietta rossa. Un bambino dal volto nascosto nella sabbia, sdraiato a pancia in giù, con le piccole scarpette lambite dall’acqua salmastra. Sembra quasi che dorma. Ed è così che lo vorrei. Lo vorrei nel suo lettino stanotte, cullato dalle ninne nanne della sua mamma e circondato dai suoi giochi e da quelli della sorella. Invece, lui, senza protestare, è stato messo su una barca per fare un viaggio che avrebbe dovuto salvargli la vita, perché, si sa, in Siria si muore e non si può restare. Qualche suo amichetto è dovuto rimanere perché i genitori non sono riusciti a trovare il denaro per partire: c’è anche Muhammad, che ha solo un occhio, perché l’altro gli è stato portato via da una scheggia impazzita e Amin, che, invece, non può correre come tutti gli altri bambini. Ha una sola gamba e al massimo può saltellare. Il bambino con la maglietta rossa non ha più i suoi zii. Sono morti perché li ha uccisi una cosa chiamata guerra. Lui sa che tante persone non sono state fortunate come lui: tante persone della sua città non sono partite e chissà se faranno la fine dei suoi zii? Oppure rimarranno con un solo occhio come Muhammad? Lui sa di essere fortunato perché può correre, può vedere alla tv i suoi cartoni preferiti, può disegnare. E può parlare: non vede l’ora di raccontare il suo viaggio ai suoi amici, non vede l’ora di arrivare e dire loro quanto è stato coraggioso. Non vede l’ora di camminare tra case vere e non tra macerie e polvere, non vede l’ora di arrivare in un parco e giocare con la palla e respirare un’aria che non sa di bruciato. Si chiede perché nella sua cara Siria tutto questo non ci sia, chissà che cosa è successo. Si chiede perché gli altri paesi, quelli più ricchi, non facciano niente per fermare la guerra. La mamma gli ha raccontato che tempo fa, quando lui non era ancora nato, l’aria profumava di pane e dolci appena sfornati, per le strade si sentivano le risate dei bambini, si facevano feste e ci si incontrava per chiacchierare e bere una tazza di tè. Lui non ha mai conosciuto questa Siria e il suo sogno sarebbe riuscire a respirare quel profumo di pane e di dolci. La sua mamma e il suo papà gli hanno detto che sarebbero andati in una bella città col cielo azzurro e gli alberi verdi, dove sarebbero stati felici. Lui ha tirato fuori tutto il suo coraggio, all’inizio aveva paura di quella barca, così piccola per tante persone, di quell’acqua, così nera nella notte senza stelle. Ma poi ha pensato che sarebbero stati felici. E così come loro anche le altre famiglie che erano lì, pronti ad affrontare il mare, gli altri bambini, le altre mamme e gli altri papà. Quando la barca si è capovolta, ha pensato che non sapeva nuotare, ma che neanche gli altri bambini sapevano nuotare. Forse sarebbe arrivata la fata del mare e li avrebbe salvati. Ora che lui, come tanti altri bambini, non ci sono più si torna a parlare di tragedia, di emergenza da risolvere, ora diciamo basta, ci scandalizziamo. Ma sono anni che in Siria c’è una guerra. Il diritto di quel bambino e di tutti quei bambini che ancora si trovano lì o di quelli che in questo momento stanno affrontando il mare è di dormire nel proprio lettino. E di fare bei sogni, costellati di principi e principesse che non imbracciano un mitra, ma che vivono in un bel castello in un bosco fatato.
Cervello in fuga
Vivo a Banbury, una piccola cittadina non troppo lontana, ma neanche troppo vicina a Birmingham in UK. Ormai sono tre anni che sopporto il freddo che ti entra nelle ossa e l’umidità delle pioggerelline estive. Mi manca l’aria frizzante della mia costa, il profumo invitante di pesce e i dolci tramonti da cartolina. Sono uno “straniero”, un “migrante”, che ha fatto una dura scelta di sopravvivenza, ha deciso di lasciare il suo rassicurante mondo di affetti per buttarsi in un’avventura che gli ha cambiato la vita. Lavorare in Italia? Avrei potuto, ma come tanti che scelgono di seguire i propri sogni, le proprie speranze, ho deciso di essere uno di quei “cervelli in fuga” che cercano altrove un futuro. E così sono partito, un po’ alla cieca, senza troppi programmi, con l’idea di rimanere qualche mese e di girare un po’ in un paese che conoscevo a malapena se non per le classiche gite a Londra e dintorni. Ho lasciato a casa la mia fidanzata promettendole che sarei tornato, anche se forse sapevo che non lo avrei fatto. Le prime settimane: fantastiche. Ho viaggiato, mi sono divertito, ho conosciuto persone che come me erano migrate da diverse parti d’Europa, alcuni studiavano, altri facevano lavoretti. Poi il down: ho iniziato a sentire l’incalzare del tempo e soprattutto la mancanza di soldi. Dovevo cercare qualcosa da fare. E così, dal lavapiatti al cameriere, dal facchino al giardiniere, mentre continuavo a chiedermi: cosa ci faccio qui? Devo tornare indietro, ho sbagliato tutto. Ripensavo a tutti coloro con cui ero cresciuto, non solo alla mia famiglia, ma anche ai miei carissimi amici e tutti mi mancavano da togliere il fiato. Volevo tornare anche solo per un weekend, ma poi … sarei ripartito o sarei rimasto a guardare da triste spettatore la mia sconfitta? Non avevo scelta. Dovevo andare avanti per quella strada che io avevo intrapreso, nessuno mi aveva costretto, nessuna guerra, nessuna calamità naturale, ma solo la voglia di migliorare e migliorarmi. E così mi sono rimboccato le maniche. Ho scelto questa piccola cittadina verde in cui ero passato per caso nei miei vagabondaggi per ricominciare (o meglio cominciare). Ho cercato un piccolo appartamento e ho iniziato a spulciare tra le case editrici del paese quelle che avrebbero potuto darmi una possibilità. E’ stata una lunga ricerca, non è così scontato pensare che fuori dall’Italia si trovi lavoro schioccando le dita. Alla fine, eccola. E’ arrivata la luce, la mia chance. Uno stage, ovvio. Non potevo pensare di essere assunto senza aver prima dimostrato cosa sapessi fare. E in quello stage ho dato tutto me stesso. Lavoravo giorno e notte per un misero rimborso, traduzioni, revisioni, traduzioni, revisioni. La mia vita sociale inesistente, i miei rapporti con l’Italia ridotti al minimo. Beh, che dire. I miei sforzi sono stati ricompensati. Sono stato assunto e oggi lavoro come traduttore a tempo pieno in un ambiente fresco e dinamico. Certo, la vita è cara, ma fortunatamente i pub chiudono alle 23 e non ci sono altri locali in cui spendere soldi! E poi forse anch’io sono cambiato. Questa esperienza di vita mi sta facendo crescere giorno dopo giorno. Non dico che sia facile, perché non lo è, ma ora posso dire di sentirmi anche un po’ inglese, perché a volte penso in inglese, sogno in inglese, ho iniziato ad amare la chicken pie che inizialmente detestavo. Ora ho un piccolo gruppo di amici che non mi fanno sentire solo, c’è anche qualche italiano, perché ho scoperto di non essere l’unico pazzo finito in questo piccolo lembo di terra lontano dal resto del mondo. E ora, quando mi capita di guardare in tv qualche servizio sulla migrazione, mi indigno nei confronti di chi non accetta chi è diverso da sé, perché è come se mi calpestassero e uccidessero quello che sono diventato. E mi indigno nei confronti di chi non vuole permettere a chi insegue i propri sogni di avere un’altra possibilità. Quella che io ho avuto e che tanti altri, con un po’ di fortuna, hanno il diritto di avere.
Un sogno chiamato Italia
Un sogno chiamato Italia. Sì, questo era per me riuscire ad approdare in un paese di cui sentivo le lodi da chi era arrivato. Un paese ospitale, dove la vita costa poco, dove ci sono lavori che ti permettono di mandare soldi alla famiglia. Dovevo partire. Dovevo rischiare. Sono partito dal Niger dove facevo il contadino e ho pensato: se lo faccio qui, posso farlo anche in Italia e guadagnare di più. Conoscevo i pericoli che mi aspettavano. Non sono uno stupido, anche se non sono andato a scuola. Sapevo che dovevo pagare, e tanto, per il mio lungo viaggio e non avevo la certezza che avrei potuto abbracciare quella terra agognata. Il mio cammino è durato moltissimo. Dopo aver attraversato il muro desertico ed essere sopravvissuto, mi sono fermato per un periodo in Libia. Con degli amici abbiamo fatto qualche lavoro, poi alcuni di loro sono partiti, io mi sono fermato ancora, forse un paio d’anni. Non stavo male, ma il viaggio era solo a metà. Dovevo proseguire. A un certo punto sono stato costretto: la situazione in Libia si è fatta più complicata, ho iniziato a vedere uomini armati, ho sentito spari echeggiare nell’aria, non capivo bene cosa stesse accadendo, ma ho avuto paura. Non potevo morire prima di affrontare LUI. Lui, quel mare che si stagliava davanti a me, quel mare che inghiottisce ogni giorno vite umane, quel mare che è ormai diventato un mare di cadaveri. Perché sono partito di nuovo? Perché avevo ancora dentro di me il sogno italiano. Perché volevo provare a vivere, piuttosto che andare incontro a un destino segnato. Ho preso accordi con un uomo a cui ho dato tutti i miei risparmi duramente guadagnati in quegli anni. Mi hanno messo dentro una barca, insieme ad altre 80, forse 90 persone. Non so quanti eravamo, so solo che inizialmente non riuscivo a vedere neanche l’acqua. Solo tante teste. Grandi e piccole. Sì, c’erano anche dei bambini nella mia barca. Non ci hanno dato nulla da mangiare né da bere. Il viaggio è durato 4 giorni. Inizialmente pensavo che ce l’avrei fatta. Sono giovane, mi ero detto. Sono forte. Mi sono seduto sul fondo della barca, non ho sprecato neanche un alito di fiato, muto, ho cercato di raccogliere tutto il coraggio che avevo. Il secondo giorno c’erano già delle persone che stavano male, avevano sete sotto il sole cocente, io ho iniziato a bere la mia urina. Nella notte tra il terzo e il quarto giorno sono arrivate le nuvole e il mare era molto mosso. Io non so nuotare. La barca ondeggiava paurosamente, una donna si è aggrappata a me, ha iniziato ad urlare, i bambini piangevano, alcuni uomini pregavano Allah, la mia tenacia e la mia forza erano tutto ciò che avevo. C’era un forte odore di benzina, non si vedeva nulla, tranne il mare, nero, tutto intorno a noi, che ci mostrava la sua furia, la sua crudeltà. A un certo punto la barca ha sobbalzato, alcuni hanno rischiato di cadere in mare, tante urla, pianti. Chissà forse qualcuno è caduto. Acqua. Tanta acqua. Grida strozzate. Aiuto. Allah aiutami. Aiutaci. Quando abbiamo visto la grande nave italiana dei soccorsi, stentavamo a crederci. Lampedusa! L’Italia! Non riuscivo neanche ad alzarmi, mi hanno aiutato, mi hanno visitato, mi hanno dato da bere e da mangiare. Mi sono guardato intorno, eravamo circa la metà di quelli che erano partiti. Dove sono gli altri? In ospedale? Ho scoperto solo in seguito che il mare li aveva portati via con sé. Io sono stato fortunato. Erano morti anche due bambini. Due vite innocenti sommerse per sempre dall’indifferenza del mondo.
Sono tre anni che vivo in Italia. Ho imparato la lingua italiana, lavoro in un’azienda agricola e riesco ad arrivare, anche se con difficoltà, alla fine del mese. Quando guardo in tv ciò che ancora accade nel mare, capisco di essere un miracolato. Io ho realizzato il mio sogno italiano. Per molti, per centinaia, migliaia di persone, il sogno si è spezzato. Il sogno è diventato il loro peggior incubo.
In memoria di tutti coloro che hanno perso la vita nelle stragi del mar Mediterraneo
E noi due insieme, nell’abbraccio di Dio
Stasera finalmente la sento. Posso parlare con la mia ragione di vita. Ha una voce così lontana, ma così limpida e trasparente. So che anche lei mi ama come io amo lei più di tutto. Anche più di Dio. Aspetto il momento di ascoltare la sua voce come un miracolo, un evento che mi rende felice per intere giornate, fino a quando ho la fortuna di risentirla ancora. Mana, è questo il suo dolce nome, ha i capelli di un nero corvino, ricci e ribelli, che le accarezzano le spalle e le incorniciano il volto luminoso e quei suoi grandi occhi scuri che hanno visto molto di più di quello che avrebbero dovuto vedere. E’ magra, forse troppo, ma è bella. Di una bellezza sconvolgente. Mi manca non poterla abbracciare, non poterla baciare, stringerla a me e farle sentire tutto il mio amore. Mi manca non poter parlare con lei quanto vorrei e riuscire a rubare solo quei dieci, forse cinque minuti una sera ogni mille, finché dura la corrente in Costa D’Avorio e finché durano i miei pochi spiccioli per pagare la connessione internet. Odio non riuscire ad avere un po’ di intimità con lei, odio condividerla con gli altri avventori dell’internet point, perché lei è solo mia. Sono geloso, geloso come un pazzo. Forse è la lontananza, io in Italia, lei laggiù, nella nostra amata terra, ma una terra così fragile, pericolosa, instabile. Ho paura per lei, so che lì ci sono troppi pericoli, so che ogni giorno potrei perderla e soffro in silenzio, prego Dio di salvarla, piango, a volte mi dispero nella mia solitudine. Sto cercando di portarla qui con me, di fare il ricongiungimento, ma è così difficile. Sono un semplice uomo, con un permesso di soggiorno come rifugiato, che non ha un lavoro, ha un coinquilino maliano che lo aiuta con le spese, sta studiando per diventare una persona migliore, ma che non ha un futuro. Quando penso al domani, mi vedo con lei, ma ciò che ci circonda è sfumato, come circondato da una fitta nebbia che stenta a diradarsi. E noi due insieme, nell’abbraccio di Dio. Lui è il mio conforto, il mio rifugio, se non avessi Lui non so come andrei avanti.
Sono passate due settimane e ho saputo che Mana è malata. Sì, ora lei, la mia gioia, è malata. Sto cercando di mandarle dei soldi, tramite il mio migliore amico che l’ha portata in ospedale, ma ne ho così pochi che non bastano neanche per un paio di medicine. Non so che malattia ha, non so se sia grave, vorrei poterla vedere, vorrei assicurarmi che guarisca, ma non posso fare niente di tutto ciò. Devo solo aspettare. Aspettare nel mio dolore. Aspettare nel dolore di un padre che non sa se potrà mai riabbracciare sua figlia. Sono migrato in Italia per salvarmi la vita e per costruirmene una nuova, ma sarebbe tutto inutile se lei, di appena quattro anni, morisse e mi lasciasse solo e disperato. Sua madre, la mia ex moglie, l’ha abbandonata al suo destino e ora ha un’altra famiglia. Lei ha solo me e io solo lei. Oggi ho iniziato uno stage in un’importante azienda, una speranza in più per noi due. Se mi assumeranno forse potrò guadagnare quei soldi che mi occorrono per lei, per farla stare bene e poi per portarla da me. Una volta che saremo insieme tutto questo dolore che mi attanaglia lo stomaco sparirà e allora potrò dire davvero che il mio duro e infinito viaggio mi ha regalato una nuova vita.
Ho conosciuto una donna…
Ho conosciuto una donna. Nel mio lavoro ne ho conosciute tante, ma lei forse è una delle più forti, delle più ostinate, delle più coraggiose. Una donna sola che è arrivata in Italia da un paese africano senza nulla, ma, come tante, con il desiderio di aver salva la vita. Questa donna, magra come un chiodo, protetta dai suoi veli, ha imparato la lingua italiana, ha viaggiato dalla Sicilia ad Ancona e poi ancora in Sicilia per avere un documento che le permettesse di avere i diritti che meritava. Finalmente, dopo mesi, eccolo: l’asilo politico. Pianti di gioia, io insieme a lei. E ora? Ora che faccio? Ora posso lavorare, devo cercare un lavoro. Lo voglio a tutti i costi. E di nuovo, su e giù per l’Italia alla ricerca di un lavoro che non c’era. Ci siamo salutate alla stazione, mentre lei, tremante di paura e di speranza, partiva verso Foggia per un posto da badante presso una conoscente. Passano due anni. All’inizio ci siamo sentite al telefono qualche volta, poi più nulla. Il silenzio. Ho pensato a lei qualche volta, mi sono chiesta che fine avesse fatto. Un giorno, camminando in fretta alla stazione di Ancona, presa da mille cose, con il telefono in mano, ricapitolando mentalmente gli appuntamenti della settimana, alzo per una frazione di secondo lo sguardo e … non può essere. Eccola lì, è lei, non posso sbagliarmi. Con uno zaino e un bambino. Sì, è proprio un neonato su un passeggino. Anche lei si gira, forse capta il mio sguardo. Sì, è davvero lei! Senza parlare ci gettiamo l’una nelle braccia dell’altra e lei mi presenta suo figlio, un piccolo e dolce frugoletto che mi scruta con dei grandi occhi neri. Inizio a farle mille domande, come mai sei qui? Cosa è successo? Il lavoro? Dove sei stata? Lei prova a spiegarmi in poche parole, ha lavorato per un po’, poi ha conosciuto un ragazzo del suo stesso paese, bello come il sole, e si è innamorata, è rimasta incinta subito, poi lui quando l’ha saputo non si è fatto più vedere e lei se n’è andata. E’ andata in Belgio. Lì ha dei cugini, degli amici che l’hanno aiutata, l’hanno ospitata. Lì ha visto nascere il suo bambino e lì vuole restare. Però è stata scoperta ed è stata rimandata in Italia. Sì, perché purtroppo esiste un regolamento che impone che chiunque faccia domanda d’asilo in un paese non possa chiederlo in un altro paese. Lei è arrivata in Italia ed è qui che deve restare. Nei giorni successivi al nostro incontro in stazione glielo spiego più volte, le faccio vedere il testo del regolamento Dublino, ma lei è disperata. Mi urla in faccia: non voglio restare in Italia! Qui non c’è lavoro, non conosco nessuno, non ho nulla! Voglio tornare dai miei cugini! Non c’è modo di farla ragionare. Passano le settimane e con l’associazione per cui lavoro riusciamo ad aiutarla a stabilirsi ad Ancona, riusciamo a iscrivere suo figlio al nido cosicché lei possa fare un tirocinio come donna delle pulizie. Lei si tranquillizza un po’, prova ad ambientarsi, fa amicizia con due donne che abitano con lei e vedo riapparire il suo bel sorriso. Ma i suoi occhi non mentono: è inquieta, io so che vuole andarsene. So che non ha abbandonato il suo progetto di vita, il suo sogno. E come può farlo? Come può non sognare di dare un futuro migliore a suo figlio? Come può non provare in tutti i modi a seguire ciò che le dice il cuore, quel cuore che la porta da quei suoi pochi familiari rimasti in vita? E infatti un giorno vado da lei e non la trovo. La prima cosa che faccio è guardare in camera sua: completamente vuota. Se n’è andata un’altra volta. Chissà dov’è ora, chissà se è riuscita a tornare in Belgio o se è da qualche altra parte in Europa. Non so dov’è, ma so che sta lottando, e come lei allo stesso modo tante altre donne, per ottenere quella libertà tanto agognata, una libertà che nessuna politica e nessuna legge dovrebbero togliere.
L’ultimo tè a Damasco
Sono stata in Siria agli inizi di gennaio 2011, esattamente un mese prima che scoppiasse la rivoluzione. Se vogliamo chiamarla così. Perché quella rivoluzione, così simile ai venti che spiravano in Nord Africa, è poi degenerata quasi subito in guerra. Una guerra atroce, una guerra che si è portata via gran parte del popolo siriano, una guerra silenziosa, che passa sotto ponti e finte manovre di pace, una guerra che dura inesorabile da quattro anni e di cui non si sente mai parlare. Solo sporadicamente qualche timido giornalista si ricorda che anche la Siria esiste, che lì ci sono profughi senza più nulla che non sanno dove andare e non riescono a lasciare il paese, che lì ci sono bambini, che non vanno a scuola da anni, che hanno perso i loro familiari e aspettano qualcuno che dal dorato Occidente dia loro una mano. Ma da lì qualcuno è riuscito a partire, imbarcandosi per il solito e dannato viaggio della speranza, e qualcuno è riuscito ad arrivare, non tutti ovviamente, come sempre. Una di loro, Jamila, occhi come la pece che mi scrutano seminascosti da un velo color rosa confetto, un lungo velo che la avvolge tutta, piccola com’è, si siede composta davanti a me. Non parla, non si fida, noto che il velo ai lati è strappato in alcuni punti, è scolorito, da lontano mi sembrava perfetta, da vicino noto tutti i segni del suo dolore. Le mani si muovono nervose, la pelle screpolata dal sole, una piccola cicatrice sulla guancia destra. Non ha nulla, nessun bagaglio. Suo marito è morto in mare. Lei ce l’ha fatta. Parlo in arabo, le faccio capire che conosco il suo paese, che amo la sua gente, la sua cultura, che non sono una nemica, dietro il mio sorriso non c’è un fucile pronto a sparare. Le racconto anche un piccolo aneddoto divertente accadutomi al suq di Damasco, in cui ho passato più di un’ora a mercanteggiare e ho bevuto non so quante, forse 10 tazze di tè! Lei accenna un dolce sorriso: – Beh, da noi si usa così … non puoi contrattare se non bevi il tè! – Ci sono riuscita, ho spezzato il muro. Ho creato un piccolo crepaccio, ora sarà più facile. E così è. Lei inizia a raccontare. A poco a poco viene fuori tutto, le atrocità subite dalla sua famiglia, il primo tentativo di fuga fallito, il secondo e riesce a partire con suo marito, suo figlio rimane ad Aleppo, ucciso in mezzo alla strada. Il viaggio. Le difficoltà in mare, le operazioni di salvataggio. Non mi dice tutto, ovviamente, ma la sua sofferenza, il suo immenso dolore è visibile in ogni suo gesto, in ogni suo sguardo. Mi dice: – Sai, non c’è più niente in Siria di tutto quello che hai visto tu, di tutte le cose che piacciono a voi turisti. Non c’è più la moschea di Aleppo, non c’è più il suq, tutto è maceria, tutto è polvere. Non esiste più la Siria, noi siriani non esistiamo perché a nessuno importa realmente di noi. Tutto è finito, khalast. Io sono finita, perché non ho più nulla, neanche il mio paese. Non sono più della Siria, ora di chi sono? – La guardo, ma resto in silenzio. A questa domanda non c’è risposta. Anch’io ancora mi chiedo il perché di tutto quello che sta accadendo, vorrei poter fare qualcosa, ma non posso fare più di questo. Cercare di aiutare quei pochi fortunati che riescono a salvarsi la vita. E quando ripenso che io ero là, solo un mese prima, e niente faceva presagire ciò che sarebbe successo, ma che un vento sotterraneo stava scuotendo animi di guerra, rimango interdetta. Chissà, forse ho incontrato senza saperlo Jamila con la sua famiglia, chissà quante Jamile con i loro veli sgargianti ho incontrato. Donne senza più la loro amata terra della seta, dei profumi, del buon pane e della generosità, dell’ospitalità, della riconoscenza, del tè a tutte le ore, delle albe dolci e delle sere calde. Donne senza più la loro Siria.
Un camion per la libertà
Italia! Ce l’ho fatta, sono arrivato! E’ questo ciò che ho pensato quando mi hanno tirato fuori, fortunatamente vivo, dalla pancia del camion sulla quale avevo viaggiato per giorni. Accanto a me altri quattro hazara, nessuno è riuscito a vedere il sole italiano. Sono afghano, mi chiamo Daoud e vengo da Mazar-i-Sharif. Non so di preciso quanti anni ho, forse 18 o 19, è tanto tempo che viaggio. Ho passato un paio di anni in Iran e poi, dopo la Turchia ed essere finalmente approdato in Grecia, sapevo già che mi aspettava il mio camion. Funziona così per noi hazara. Non abbiamo documenti, non abbiamo soldi, ma siamo costretti a lasciare il nostro paese per non morire. Ho conosciuto altri afghani che, come me, hanno tentato la sorte. Mi sono sistemato nella pancia stretta, puzzolente, calda, troppo calda, del bestione che mi avrebbe portato verso la salvezza. In terra o in cielo. Non ho mangiato per giorni, avevo male dappertutto, le mie ossa scricchiolavano a ogni piccola buca. A un certo punto non riuscivo più a ragionare con lucidità, non sapevo neanche dove fossi, sapevo solo che dovevo restare lì, nascosto nella mia sofferenza. Potevo solo pregare. Pregavo Allah per me, ma soprattutto per mia madre e le mie sorelle rimaste in Iran. Chissà forse un giorno avrei potuto riabbracciarle. Mio padre e mio fratello sono stati uccisi in Afghanistan, ormai sono io il capofamiglia. Questo ciò che mi ripetevo. Dovevo provare a vivere per salvare la parte che restava della mia famiglia. Quasi privo di forze, tentavo di ricordare la mia dolce infanzia e quegli aquiloni colorati che facevamo volare, su nel cielo azzurro, nella felicità di un abbraccio, di un sorriso della mamma, di una tenera occhiata del papà. Poi credo di essere svenuto, perché non so cosa sia successo, mi sono svegliato, ma intorno a me era buio, non vedevo nulla, mi sembrava di essere su una nave, ma non ne ero sicuro, forse erano solo mie allucinazioni. E poi sono svenuto ancora. E ancora ho riaperto gli occhi, ma ormai non riuscivo più a percepire nulla, la mia mente era vuota. Non ero più Daoud, ero un corpo in fin di vita. E poi alcune mani, tante mani, tutte bianche. Mi hanno preso e mi hanno strattonato per cercare di liberarmi dal mostro che mi teneva ancorato a sé. Un mostro che, paradossalmente, mi aveva salvato la vita. Ho scoperto poi di essere arrivato al porto di Ancona. L’Italia. La terra che tanto avevo sognato, la terra che mi avrebbe ridato la libertà. Sono stato portato in ospedale, dove sono rimasto 17 giorni. Avevo due costole rotte, una grossa ferita al volto, ustioni di secondo grado alle braccia e alle gambe e non ricordo che altro, ma ero vivo. Da quei primi giorni in questo paese sono passati due anni: due anni in cui ho potuto imparare una lingua per me incomprensibile, due anni in cui ho potuto curarmi, due anni in cui ho potuto imparare a cucinare la pizza, due anni in cui ho ottenuto l’asilo. Ora sono un rifugiato e finalmente sono libero. Ho pochi soldi, il lavoro scarseggia, sto pensando di tentare la fortuna in Germania o in Svezia, chissà. Di notte non dormo, ho ancora gli incubi. Rivedo ancora quel mostro nero, che mi ha piegato, ma non mi ha spezzato. In fondo, mi è stato amico: grazie a lui ora sono tornato a essere Daoud, quel bambino che, ormai diventato grande, spera un giorno di far volare un aquilone, felice e spensierato, insieme alla sua famiglia.