Sono stata in Siria agli inizi di gennaio 2011, esattamente un mese prima che scoppiasse la rivoluzione. Se vogliamo chiamarla così. Perché quella rivoluzione, così simile ai venti che spiravano in Nord Africa, è poi degenerata quasi subito in guerra. Una guerra atroce, una guerra che si è portata via gran parte del popolo siriano, una guerra silenziosa, che passa sotto ponti e finte manovre di pace, una guerra che dura inesorabile da quattro anni e di cui non si sente mai parlare. Solo sporadicamente qualche timido giornalista si ricorda che anche la Siria esiste, che lì ci sono profughi senza più nulla che non sanno dove andare e non riescono a lasciare il paese, che lì ci sono bambini, che non vanno a scuola da anni, che hanno perso i loro familiari e aspettano qualcuno che dal dorato Occidente dia loro una mano. Ma da lì qualcuno è riuscito a partire, imbarcandosi per il solito e dannato viaggio della speranza, e qualcuno è riuscito ad arrivare, non tutti ovviamente, come sempre. Una di loro, Jamila, occhi come la pece che mi scrutano seminascosti da un velo color rosa confetto, un lungo velo che la avvolge tutta, piccola com’è, si siede composta davanti a me. Non parla, non si fida, noto che il velo ai lati è strappato in alcuni punti, è scolorito, da lontano mi sembrava perfetta, da vicino noto tutti i segni del suo dolore. Le mani si muovono nervose, la pelle screpolata dal sole, una piccola cicatrice sulla guancia destra. Non ha nulla, nessun bagaglio. Suo marito è morto in mare. Lei ce l’ha fatta. Parlo in arabo, le faccio capire che conosco il suo paese, che amo la sua gente, la sua cultura, che non sono una nemica, dietro il mio sorriso non c’è un fucile pronto a sparare. Le racconto anche un piccolo aneddoto divertente accadutomi al suq di Damasco, in cui ho passato più di un’ora a mercanteggiare e ho bevuto non so quante, forse 10 tazze di tè! Lei accenna un dolce sorriso: – Beh, da noi si usa così … non puoi contrattare se non bevi il tè! – Ci sono riuscita, ho spezzato il muro. Ho creato un piccolo crepaccio, ora sarà più facile. E così è. Lei inizia a raccontare. A poco a poco viene fuori tutto, le atrocità subite dalla sua famiglia, il primo tentativo di fuga fallito, il secondo e riesce a partire con suo marito, suo figlio rimane ad Aleppo, ucciso in mezzo alla strada. Il viaggio. Le difficoltà in mare, le operazioni di salvataggio. Non mi dice tutto, ovviamente, ma la sua sofferenza, il suo immenso dolore è visibile in ogni suo gesto, in ogni suo sguardo. Mi dice: – Sai, non c’è più niente in Siria di tutto quello che hai visto tu, di tutte le cose che piacciono a voi turisti. Non c’è più la moschea di Aleppo, non c’è più il suq, tutto è maceria, tutto è polvere. Non esiste più la Siria, noi siriani non esistiamo perché a nessuno importa realmente di noi. Tutto è finito, khalast. Io sono finita, perché non ho più nulla, neanche il mio paese. Non sono più della Siria, ora di chi sono? – La guardo, ma resto in silenzio. A questa domanda non c’è risposta. Anch’io ancora mi chiedo il perché di tutto quello che sta accadendo, vorrei poter fare qualcosa, ma non posso fare più di questo. Cercare di aiutare quei pochi fortunati che riescono a salvarsi la vita. E quando ripenso che io ero là, solo un mese prima, e niente faceva presagire ciò che sarebbe successo, ma che un vento sotterraneo stava scuotendo animi di guerra, rimango interdetta. Chissà, forse ho incontrato senza saperlo Jamila con la sua famiglia, chissà quante Jamile con i loro veli sgargianti ho incontrato. Donne senza più la loro amata terra della seta, dei profumi, del buon pane e della generosità, dell’ospitalità, della riconoscenza, del tè a tutte le ore, delle albe dolci e delle sere calde. Donne senza più la loro Siria.