Un bambino dai capelli neri e la maglietta rossa. Un bambino dal volto nascosto nella sabbia, sdraiato a pancia in giù, con le piccole scarpette lambite dall’acqua salmastra. Sembra quasi che dorma. Ed è così che lo vorrei. Lo vorrei nel suo lettino stanotte, cullato dalle ninne nanne della sua mamma e circondato dai suoi giochi e da quelli della sorella. Invece, lui, senza protestare, è stato messo su una barca per fare un viaggio che avrebbe dovuto salvargli la vita, perché, si sa, in Siria si muore e non si può restare. Qualche suo amichetto è dovuto rimanere perché i genitori non sono riusciti a trovare il denaro per partire: c’è anche Muhammad, che ha solo un occhio, perché l’altro gli è stato portato via da una scheggia impazzita e Amin, che, invece, non può correre come tutti gli altri bambini. Ha una sola gamba e al massimo può saltellare. Il bambino con la maglietta rossa non ha più i suoi zii. Sono morti perché li ha uccisi una cosa chiamata guerra. Lui sa che tante persone non sono state fortunate come lui: tante persone della sua città non sono partite e chissà se faranno la fine dei suoi zii? Oppure rimarranno con un solo occhio come Muhammad? Lui sa di essere fortunato perché può correre, può vedere alla tv i suoi cartoni preferiti, può disegnare. E può parlare: non vede l’ora di raccontare il suo viaggio ai suoi amici, non vede l’ora di arrivare e dire loro quanto è stato coraggioso. Non vede l’ora di camminare tra case vere e non tra macerie e polvere, non vede l’ora di arrivare in un parco e giocare con la palla e respirare un’aria che non sa di bruciato. Si chiede perché nella sua cara Siria tutto questo non ci sia, chissà che cosa è successo. Si chiede perché gli altri paesi, quelli più ricchi, non facciano niente per fermare la guerra. La mamma gli ha raccontato che tempo fa, quando lui non era ancora nato, l’aria profumava di pane e dolci appena sfornati, per le strade si sentivano le risate dei bambini, si facevano feste e ci si incontrava per chiacchierare e bere una tazza di tè. Lui non ha mai conosciuto questa Siria e il suo sogno sarebbe riuscire a respirare quel profumo di pane e di dolci. La sua mamma e il suo papà gli hanno detto che sarebbero andati in una bella città col cielo azzurro e gli alberi verdi, dove sarebbero stati felici. Lui ha tirato fuori tutto il suo coraggio, all’inizio aveva paura di quella barca, così piccola per tante persone, di quell’acqua, così nera nella notte senza stelle. Ma poi ha pensato che sarebbero stati felici. E così come loro anche le altre famiglie che erano lì, pronti ad affrontare il mare, gli altri bambini, le altre mamme e gli altri papà. Quando la barca si è capovolta, ha pensato che non sapeva nuotare, ma che neanche gli altri bambini sapevano nuotare. Forse sarebbe arrivata la fata del mare e li avrebbe salvati. Ora che lui, come tanti altri bambini, non ci sono più si torna a parlare di tragedia, di emergenza da risolvere, ora diciamo basta, ci scandalizziamo. Ma sono anni che in Siria c’è una guerra. Il diritto di quel bambino e di tutti quei bambini che ancora si trovano lì o di quelli che in questo momento stanno affrontando il mare è di dormire nel proprio lettino. E di fare bei sogni, costellati di principi e principesse che non imbracciano un mitra, ma che vivono in un bel castello in un bosco fatato.
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L’ultimo tè a Damasco
Sono stata in Siria agli inizi di gennaio 2011, esattamente un mese prima che scoppiasse la rivoluzione. Se vogliamo chiamarla così. Perché quella rivoluzione, così simile ai venti che spiravano in Nord Africa, è poi degenerata quasi subito in guerra. Una guerra atroce, una guerra che si è portata via gran parte del popolo siriano, una guerra silenziosa, che passa sotto ponti e finte manovre di pace, una guerra che dura inesorabile da quattro anni e di cui non si sente mai parlare. Solo sporadicamente qualche timido giornalista si ricorda che anche la Siria esiste, che lì ci sono profughi senza più nulla che non sanno dove andare e non riescono a lasciare il paese, che lì ci sono bambini, che non vanno a scuola da anni, che hanno perso i loro familiari e aspettano qualcuno che dal dorato Occidente dia loro una mano. Ma da lì qualcuno è riuscito a partire, imbarcandosi per il solito e dannato viaggio della speranza, e qualcuno è riuscito ad arrivare, non tutti ovviamente, come sempre. Una di loro, Jamila, occhi come la pece che mi scrutano seminascosti da un velo color rosa confetto, un lungo velo che la avvolge tutta, piccola com’è, si siede composta davanti a me. Non parla, non si fida, noto che il velo ai lati è strappato in alcuni punti, è scolorito, da lontano mi sembrava perfetta, da vicino noto tutti i segni del suo dolore. Le mani si muovono nervose, la pelle screpolata dal sole, una piccola cicatrice sulla guancia destra. Non ha nulla, nessun bagaglio. Suo marito è morto in mare. Lei ce l’ha fatta. Parlo in arabo, le faccio capire che conosco il suo paese, che amo la sua gente, la sua cultura, che non sono una nemica, dietro il mio sorriso non c’è un fucile pronto a sparare. Le racconto anche un piccolo aneddoto divertente accadutomi al suq di Damasco, in cui ho passato più di un’ora a mercanteggiare e ho bevuto non so quante, forse 10 tazze di tè! Lei accenna un dolce sorriso: – Beh, da noi si usa così … non puoi contrattare se non bevi il tè! – Ci sono riuscita, ho spezzato il muro. Ho creato un piccolo crepaccio, ora sarà più facile. E così è. Lei inizia a raccontare. A poco a poco viene fuori tutto, le atrocità subite dalla sua famiglia, il primo tentativo di fuga fallito, il secondo e riesce a partire con suo marito, suo figlio rimane ad Aleppo, ucciso in mezzo alla strada. Il viaggio. Le difficoltà in mare, le operazioni di salvataggio. Non mi dice tutto, ovviamente, ma la sua sofferenza, il suo immenso dolore è visibile in ogni suo gesto, in ogni suo sguardo. Mi dice: – Sai, non c’è più niente in Siria di tutto quello che hai visto tu, di tutte le cose che piacciono a voi turisti. Non c’è più la moschea di Aleppo, non c’è più il suq, tutto è maceria, tutto è polvere. Non esiste più la Siria, noi siriani non esistiamo perché a nessuno importa realmente di noi. Tutto è finito, khalast. Io sono finita, perché non ho più nulla, neanche il mio paese. Non sono più della Siria, ora di chi sono? – La guardo, ma resto in silenzio. A questa domanda non c’è risposta. Anch’io ancora mi chiedo il perché di tutto quello che sta accadendo, vorrei poter fare qualcosa, ma non posso fare più di questo. Cercare di aiutare quei pochi fortunati che riescono a salvarsi la vita. E quando ripenso che io ero là, solo un mese prima, e niente faceva presagire ciò che sarebbe successo, ma che un vento sotterraneo stava scuotendo animi di guerra, rimango interdetta. Chissà, forse ho incontrato senza saperlo Jamila con la sua famiglia, chissà quante Jamile con i loro veli sgargianti ho incontrato. Donne senza più la loro amata terra della seta, dei profumi, del buon pane e della generosità, dell’ospitalità, della riconoscenza, del tè a tutte le ore, delle albe dolci e delle sere calde. Donne senza più la loro Siria.
Ma fi mushkila
Sono passati tre mesi dal mio arrivo in Italia. Partito dal Sud Sudan, dopo aver attraversato lo sterminato deserto ed essere approdato in Libia, dopo essere scampato alla morte e aver inghiottito la violenza del mare che mi ha ospitato per giorni, sono sbarcato nella piccola isola che tutti chiamano “Lambidusa”. Lì mani esperte mi hanno visitato e messo su un autobus con direzione Bari. Poi, da lì ancora su un altro autobus con direzione Roma, e poi Venezia, infine Ancona. Ho conosciuto delle persone che mi hanno offerto aiuto, una casa, del cibo, la possibilità di studiare la lingua italiana, mi hanno spiegato come andare in Questura, mi hanno detto che potevo parlare con una donna che fa un mestiere che si chiama “bisicologa”. Io non ho capito molto, lei si è presentata come la “dottoressa della testa” e ha iniziato a farmi domande, a parlare, a parlare, a parlare. Vicino a lei c’era un’altra persona che traduceva in arabo e che voleva sapere i fatti miei. Allora, io ho solo detto che non c’era nessun problema. Ma fi mushkila. Ho detto che stavo bene e che mi piaceva l’Italia. Dopo una settimana ci siamo rivisti, voleva sapere qualcosa in più della mia famiglia. Mia madre, mio figlio e mia moglie sono stati uccisi in uno scontro a fuoco a Bor, io mi sono salvato solo perché in quel momento non ero presente, stavo lavorando nel mio negozio di stoffe. Quando ho pensato a loro, quando i loro visi e le loro voci sono rientrati prepotentemente dentro di me, è ricominciato anche un forte mal di testa che non sono riuscito a scacciare. Allora ho solo detto che non sapevo dove fossero, che io ero fuggito dalla guerra e che avevo perso i contatti con loro. Ma sapevo, ero certo che stavano bene. Ma fi mushkila. Quando sono uscito da quella stanza soffocante, volevo solo tornare a casa, sdraiarmi sul letto e chiudere gli occhi con quelle gocce che mi fanno stare meglio, che mi fanno dormire quel poco che basta per poter andare avanti. Per un po’ mi hanno lasciato in pace. Ma poi hanno ricominciato. Ancora domande, ancora aiuto. Non hanno fatto altro che ripetermi che vogliono aiutarmi, che vogliono farmi stare meglio. – Kamal, ascolta, se non ci dici che cosa ti fa star male, noi non possiamo fare niente per te. Non puoi continuare a prendere i farmaci. Dobbiamo capire che cosa è successo. Fidati di noi. – A un certo punto sono scoppiato. – Volete sapere che cos’ho? Volete sapere che cosa voglio? Io voglio morire. Dovete solo lasciarmi morire. – Sono andato via, sono fuggito. Via da loro, via da tutti. Non voglio più pensare, non voglio più ricordare, il dolore è atroce, la testa mi scoppia, il cuore mi martella nel petto. Sono rimasto solo, non ho più nessuno al mondo, ho perso tutto. Perché devo essere obbligato a ricordare? La vita che mi resta non voglio più viverla. Sono fuggito dal mio paese per dimenticare il mio passato. Ma lui è sempre lì, in agguato, è dietro l’angolo. Sento ancora le esplosioni, la gente urlare, i bambini piangere disperati. Vedo ancora le case bruciare e quell’odore acre, pungente, quell’odore di morte. La mia vita è morte. Ora vago per strada, senza una casa, senza un lavoro. Solo quando sarò morto, allora potrò dire davvero, insieme alla mia famiglia, ma fi mushkila.