Un sogno chiamato Italia

sbarchi-2Un sogno chiamato Italia. Sì, questo era per me riuscire ad approdare in un paese di cui sentivo le lodi da chi era arrivato. Un paese ospitale, dove la vita costa poco, dove ci sono lavori che ti permettono di mandare soldi alla famiglia. Dovevo partire. Dovevo rischiare. Sono partito dal Niger dove facevo il contadino e ho pensato: se lo faccio qui, posso farlo anche in Italia e guadagnare di più. Conoscevo i pericoli che mi aspettavano. Non sono uno stupido, anche se non sono andato a scuola. Sapevo che dovevo pagare, e tanto, per il mio lungo viaggio e non avevo la certezza che avrei potuto abbracciare quella terra agognata. Il mio cammino è durato moltissimo. Dopo aver attraversato il muro desertico ed essere sopravvissuto, mi sono fermato per un periodo in Libia. Con degli amici abbiamo fatto qualche lavoro, poi alcuni di loro sono partiti, io mi sono fermato ancora, forse un paio d’anni. Non stavo male, ma il viaggio era solo a metà. Dovevo proseguire. A un certo punto sono stato costretto: la situazione in Libia si è fatta più complicata, ho iniziato a vedere uomini armati, ho sentito spari echeggiare nell’aria, non capivo bene cosa stesse accadendo, ma ho avuto paura. Non potevo morire prima di affrontare LUI. Lui, quel mare che si stagliava davanti a me, quel mare che inghiottisce ogni giorno vite umane, quel mare che è ormai diventato un mare di cadaveri. Perché sono partito di nuovo? Perché avevo ancora dentro di me il sogno italiano. Perché volevo provare a vivere, piuttosto che andare incontro a un destino segnato. Ho preso accordi con un uomo a cui ho dato tutti i miei risparmi duramente guadagnati in quegli anni. Mi hanno messo dentro una barca, insieme ad altre 80, forse 90 persone. Non so quanti eravamo, so solo che inizialmente non riuscivo a vedere neanche l’acqua. Solo tante teste. Grandi e piccole. Sì, c’erano anche dei bambini nella mia barca. Non ci hanno dato nulla da mangiare né da bere. Il viaggio è durato 4 giorni. Inizialmente pensavo che ce l’avrei fatta. Sono giovane, mi ero detto. Sono forte. Mi sono seduto sul fondo della barca, non ho sprecato neanche un alito di fiato, muto, ho cercato di raccogliere tutto il coraggio che avevo. Il secondo giorno c’erano già delle persone che stavano male, avevano sete sotto il sole cocente, io ho iniziato a bere la mia urina. Nella notte tra il terzo e il quarto giorno sono arrivate le nuvole e il mare era molto mosso. Io non so nuotare. La barca ondeggiava paurosamente, una donna si è aggrappata a me, ha iniziato ad urlare, i bambini piangevano, alcuni uomini pregavano Allah, la mia tenacia e la mia forza erano tutto ciò che avevo. C’era un forte odore di benzina, non si vedeva nulla, tranne il mare, nero, tutto intorno a noi, che ci mostrava la sua furia, la sua crudeltà. A un certo punto la barca ha sobbalzato, alcuni hanno rischiato di cadere in mare, tante urla, pianti. Chissà forse qualcuno è caduto. Acqua. Tanta acqua. Grida strozzate. Aiuto. Allah aiutami. Aiutaci. Quando abbiamo visto la grande nave italiana dei soccorsi, stentavamo a crederci. Lampedusa! L’Italia! Non riuscivo neanche ad alzarmi, mi hanno aiutato, mi hanno visitato, mi hanno dato da bere e da mangiare. Mi sono guardato intorno, eravamo circa la metà di quelli che erano partiti. Dove sono gli altri? In ospedale? Ho scoperto solo in seguito che il mare li aveva portati via con sé. Io sono stato fortunato. Erano morti anche due bambini. Due vite innocenti sommerse per sempre dall’indifferenza del mondo.

Sono tre anni che vivo in Italia. Ho imparato la lingua italiana, lavoro in un’azienda agricola e riesco ad arrivare, anche se con difficoltà, alla fine del mese. Quando guardo in tv ciò che ancora accade nel mare, capisco di essere un miracolato. Io ho realizzato il mio sogno italiano. Per molti, per centinaia, migliaia di persone, il sogno si è spezzato. Il sogno è diventato il loro peggior incubo.

In memoria di tutti coloro che hanno perso la vita nelle stragi del mar Mediterraneo

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