Ho conosciuto una donna. Nel mio lavoro ne ho conosciute tante, ma lei forse è una delle più forti, delle più ostinate, delle più coraggiose. Una donna sola che è arrivata in Italia da un paese africano senza nulla, ma, come tante, con il desiderio di aver salva la vita. Questa donna, magra come un chiodo, protetta dai suoi veli, ha imparato la lingua italiana, ha viaggiato dalla Sicilia ad Ancona e poi ancora in Sicilia per avere un documento che le permettesse di avere i diritti che meritava. Finalmente, dopo mesi, eccolo: l’asilo politico. Pianti di gioia, io insieme a lei. E ora? Ora che faccio? Ora posso lavorare, devo cercare un lavoro. Lo voglio a tutti i costi. E di nuovo, su e giù per l’Italia alla ricerca di un lavoro che non c’era. Ci siamo salutate alla stazione, mentre lei, tremante di paura e di speranza, partiva verso Foggia per un posto da badante presso una conoscente. Passano due anni. All’inizio ci siamo sentite al telefono qualche volta, poi più nulla. Il silenzio. Ho pensato a lei qualche volta, mi sono chiesta che fine avesse fatto. Un giorno, camminando in fretta alla stazione di Ancona, presa da mille cose, con il telefono in mano, ricapitolando mentalmente gli appuntamenti della settimana, alzo per una frazione di secondo lo sguardo e … non può essere. Eccola lì, è lei, non posso sbagliarmi. Con uno zaino e un bambino. Sì, è proprio un neonato su un passeggino. Anche lei si gira, forse capta il mio sguardo. Sì, è davvero lei! Senza parlare ci gettiamo l’una nelle braccia dell’altra e lei mi presenta suo figlio, un piccolo e dolce frugoletto che mi scruta con dei grandi occhi neri. Inizio a farle mille domande, come mai sei qui? Cosa è successo? Il lavoro? Dove sei stata? Lei prova a spiegarmi in poche parole, ha lavorato per un po’, poi ha conosciuto un ragazzo del suo stesso paese, bello come il sole, e si è innamorata, è rimasta incinta subito, poi lui quando l’ha saputo non si è fatto più vedere e lei se n’è andata. E’ andata in Belgio. Lì ha dei cugini, degli amici che l’hanno aiutata, l’hanno ospitata. Lì ha visto nascere il suo bambino e lì vuole restare. Però è stata scoperta ed è stata rimandata in Italia. Sì, perché purtroppo esiste un regolamento che impone che chiunque faccia domanda d’asilo in un paese non possa chiederlo in un altro paese. Lei è arrivata in Italia ed è qui che deve restare. Nei giorni successivi al nostro incontro in stazione glielo spiego più volte, le faccio vedere il testo del regolamento Dublino, ma lei è disperata. Mi urla in faccia: non voglio restare in Italia! Qui non c’è lavoro, non conosco nessuno, non ho nulla! Voglio tornare dai miei cugini! Non c’è modo di farla ragionare. Passano le settimane e con l’associazione per cui lavoro riusciamo ad aiutarla a stabilirsi ad Ancona, riusciamo a iscrivere suo figlio al nido cosicché lei possa fare un tirocinio come donna delle pulizie. Lei si tranquillizza un po’, prova ad ambientarsi, fa amicizia con due donne che abitano con lei e vedo riapparire il suo bel sorriso. Ma i suoi occhi non mentono: è inquieta, io so che vuole andarsene. So che non ha abbandonato il suo progetto di vita, il suo sogno. E come può farlo? Come può non sognare di dare un futuro migliore a suo figlio? Come può non provare in tutti i modi a seguire ciò che le dice il cuore, quel cuore che la porta da quei suoi pochi familiari rimasti in vita? E infatti un giorno vado da lei e non la trovo. La prima cosa che faccio è guardare in camera sua: completamente vuota. Se n’è andata un’altra volta. Chissà dov’è ora, chissà se è riuscita a tornare in Belgio o se è da qualche altra parte in Europa. Non so dov’è, ma so che sta lottando, e come lei allo stesso modo tante altre donne, per ottenere quella libertà tanto agognata, una libertà che nessuna politica e nessuna legge dovrebbero togliere.