«Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici, ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali». Inizio così questo mio primo e ultimo articolo del 2016, con questa citazione di cui scriverò poi la fonte. E con una domanda: chi sono queste persone? Provate a indovinare. Una di loro potrebbe essere Jamila, che viene dalla Siria e che ha visto suo marito e suo figlio morire sotto le bombe oppure Samira, che ha solo tre anni ed è arrivata in Italia dalla Somalia aggrappata alla gonna di sua madre in un barcone semi distrutto. O Kamal, approdato dal Sud Sudan, dopo un viaggio lungo anni, che, nonostante gli aiuti offerti, vuole continuare a convivere con il suo dolore e i suoi ricordi. O Anush dall’Armenia, che con la sua famiglia prova a ricostruirsi una vita in Italia. Ma potrebbe essere anche Daoud, che dall’Afghanistan ha viaggiato sotto un camion per riuscire ad arrivare nella sua sognata Europa. Potrebbero essere tutte quelle storie che vi ho raccontato e tante altre che affronto quotidianamente e che mi fanno porre mille domande su vite distrutte o piegate dal dolore, su vite interrotte e su vite che sperano ancora in un futuro. E invece ecco qui come prosegue questo estratto: «Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell’Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione» (testo tratto da una relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, ottobre 1912). Ebbene sì, siamo noi, gli italiani, che, sbarcati a Ellis Island, negli Stati Uniti, veniamo considerati come delinquenti, pericolosi per la sicurezza del paese, siamo persone che puzzano e parliamo lingue incomprensibili. Facciamo molti figli e non abbiamo molta voglia di lavorare. Cosa vedete di diverso rispetto a quello che pensa la maggior parte di noi dei migranti che approdano sulle nostre coste e che ci “invadono” quotidianamente? In questo nuovo anno vorrei poter cambiare molte teste, vorrei che anche coloro che non si trovino di fronte alle mie storie facciano qualcosa per un’Italia più accogliente, un’Italia senza paura. Il mio sogno più grande è un 2016 senza guerre. So che ciò non è possibile, purtroppo, e allora lavoriamo insieme per far sì che il nostro sia un paese migliore, partendo dalle idee, dalle emozioni e dalla coscienza. Auguro a tutti voi un 2016 di cuore e sensibilità.