E noi due insieme, nell’abbraccio di Dio

imagesStasera finalmente la sento. Posso parlare con la mia ragione di vita. Ha una voce così lontana, ma così limpida e trasparente. So che anche lei mi ama come io amo lei più di tutto. Anche più di Dio. Aspetto il momento di ascoltare la sua voce come un miracolo, un evento che mi rende felice per intere giornate, fino a quando ho la fortuna di risentirla ancora. Mana, è questo il suo dolce nome, ha i capelli di un nero corvino, ricci e ribelli, che le accarezzano le spalle e le incorniciano il volto luminoso e quei suoi grandi occhi scuri che hanno visto molto di più di quello che avrebbero dovuto vedere. E’ magra, forse troppo, ma è bella. Di una bellezza sconvolgente. Mi manca non poterla abbracciare, non poterla baciare, stringerla a me e farle sentire tutto il mio amore. Mi manca non poter parlare con lei quanto vorrei e riuscire a rubare solo quei dieci, forse cinque minuti una sera ogni mille, finché dura la corrente in Costa D’Avorio e finché durano i miei pochi spiccioli per pagare la connessione internet. Odio non riuscire ad avere un po’ di intimità con lei, odio condividerla con gli altri avventori dell’internet point, perché lei è solo mia. Sono geloso, geloso come un pazzo. Forse è la lontananza, io in Italia, lei laggiù, nella nostra amata terra, ma una terra così fragile, pericolosa, instabile. Ho paura per lei, so che lì ci sono troppi pericoli, so che ogni giorno potrei perderla e soffro in silenzio, prego Dio di salvarla, piango, a volte mi dispero nella mia solitudine. Sto cercando di portarla qui con me, di fare il ricongiungimento, ma è così difficile. Sono un semplice uomo, con un permesso di soggiorno come rifugiato, che non ha un lavoro, ha un coinquilino maliano che lo aiuta con le spese, sta studiando per diventare una persona migliore, ma che non ha un futuro. Quando penso al domani, mi vedo con lei, ma ciò che ci circonda è sfumato, come circondato da una fitta nebbia che stenta a diradarsi. E noi due insieme, nell’abbraccio di Dio. Lui è il mio conforto, il mio rifugio, se non avessi Lui non so come andrei avanti.

Sono passate due settimane e ho saputo che Mana è malata. Sì, ora lei, la mia gioia, è malata. Sto cercando di mandarle dei soldi, tramite il mio migliore amico che l’ha portata in ospedale, ma ne ho così pochi che non bastano neanche per un paio di medicine. Non so che malattia ha, non so se sia grave, vorrei poterla vedere, vorrei assicurarmi che guarisca, ma non posso fare niente di tutto ciò. Devo solo aspettare. Aspettare nel mio dolore. Aspettare nel dolore di un padre che non sa se potrà mai riabbracciare sua figlia. Sono migrato in Italia per salvarmi la vita e per costruirmene una nuova, ma sarebbe tutto inutile se lei, di appena quattro anni, morisse e mi lasciasse solo e disperato. Sua madre, la mia ex moglie, l’ha abbandonata al suo destino e ora ha un’altra famiglia. Lei ha solo me e io solo lei. Oggi ho iniziato uno stage in un’importante azienda, una speranza in più per noi due. Se mi assumeranno forse potrò guadagnare quei soldi che mi occorrono per lei, per farla stare bene e poi per portarla da me. Una volta che saremo insieme tutto questo dolore che mi attanaglia lo stomaco sparirà e allora potrò dire davvero che il mio duro e infinito viaggio mi ha regalato una nuova vita.

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Ho conosciuto una donna…

regolamento-dublinoHo conosciuto una donna. Nel mio lavoro ne ho conosciute tante, ma lei forse è una delle più forti, delle più ostinate, delle più coraggiose. Una donna sola che è arrivata in Italia da un paese africano senza nulla, ma, come tante, con il desiderio di aver salva la vita. Questa donna, magra come un chiodo, protetta dai suoi veli, ha imparato la lingua italiana, ha viaggiato dalla Sicilia ad Ancona e poi ancora in Sicilia per avere un documento che le permettesse di avere i diritti che meritava. Finalmente, dopo mesi, eccolo: l’asilo politico. Pianti di gioia, io insieme a lei. E ora? Ora che faccio? Ora posso lavorare, devo cercare un lavoro. Lo voglio a tutti i costi. E di nuovo, su e giù per l’Italia alla ricerca di un lavoro che non c’era. Ci siamo salutate alla stazione, mentre lei, tremante di paura e di speranza, partiva verso Foggia per un posto da badante presso una conoscente. Passano due anni. All’inizio ci siamo sentite al telefono qualche volta, poi più nulla. Il silenzio. Ho pensato a lei qualche volta, mi sono chiesta che fine avesse fatto. Un giorno, camminando in fretta alla stazione di Ancona, presa da mille cose, con il telefono in mano, ricapitolando mentalmente gli appuntamenti della settimana, alzo per una frazione di secondo lo sguardo e … non può essere. Eccola lì, è lei, non posso sbagliarmi. Con uno zaino e un bambino. Sì, è proprio un neonato su un passeggino. Anche lei si gira, forse capta il mio sguardo. Sì, è davvero lei! Senza parlare ci gettiamo l’una nelle braccia dell’altra e lei mi presenta suo figlio, un piccolo e dolce frugoletto che mi scruta con dei grandi occhi neri. Inizio a farle mille domande, come mai sei qui? Cosa è successo? Il lavoro? Dove sei stata? Lei prova a spiegarmi in poche parole, ha lavorato per un po’, poi ha conosciuto un ragazzo del suo stesso paese, bello come il sole, e si è innamorata, è rimasta incinta subito, poi lui quando l’ha saputo non si è fatto più vedere e lei se n’è andata. E’ andata in Belgio. Lì ha dei cugini, degli amici che l’hanno aiutata, l’hanno ospitata. Lì ha visto nascere il suo bambino e lì vuole restare. Però è stata scoperta ed è stata rimandata in Italia. Sì, perché purtroppo esiste un regolamento che impone che chiunque faccia domanda d’asilo in un paese non possa chiederlo in un altro paese. Lei è arrivata in Italia ed è qui che deve restare. Nei giorni successivi al nostro incontro in stazione glielo spiego più volte, le faccio vedere il testo del regolamento Dublino, ma lei è disperata. Mi urla in faccia: non voglio restare in Italia! Qui non  c’è lavoro, non conosco nessuno, non ho nulla! Voglio tornare dai miei cugini! Non c’è modo di farla ragionare. Passano le settimane e con l’associazione per cui lavoro riusciamo ad aiutarla a stabilirsi ad Ancona, riusciamo a iscrivere suo figlio al nido cosicché lei possa fare un tirocinio come donna delle pulizie. Lei si tranquillizza un po’, prova ad ambientarsi, fa amicizia con due donne che abitano con lei e vedo riapparire il suo bel sorriso. Ma i suoi occhi non mentono: è inquieta, io so che vuole andarsene. So che non ha abbandonato il suo progetto di vita, il suo sogno. E come può farlo? Come può non sognare di dare un futuro migliore a suo figlio? Come può non provare in tutti i modi a seguire ciò che le dice il cuore, quel cuore che la porta da quei suoi pochi familiari rimasti in vita? E infatti un giorno vado da lei e non la trovo. La prima cosa che faccio è guardare in camera sua: completamente vuota. Se n’è andata un’altra volta. Chissà dov’è ora, chissà se è riuscita a tornare in Belgio o se è da qualche altra parte in Europa. Non so dov’è, ma so che sta lottando, e come lei allo stesso modo tante altre donne, per ottenere quella libertà tanto agognata, una libertà che nessuna politica e nessuna legge dovrebbero togliere.

L’ultimo tè a Damasco

 Sono stata in Siria agli inizi di gennaio 2011, esattamente un mese prima che scoppiasse la rivoluzione. Se vogliamo chiamarla così. Perché quella rivoluzione, così simile ai venti che spiravano in Nord Africa, è poi degenerata quasi subito in guerra. Una guerra atroce, una guerra che si è portata via gran parte del popolo siriano, una guerra silenziosa, che passa sotto ponti e finte manovre di pace, una guerra che dura inesorabile da quattro anni e di cui non si sente mai parlare. Solo sporadicamente qualche timido giornalista si ricorda che anche la Siria esiste, che lì ci sono profughi senza più nulla che non sanno dove andare e non riescono a lasciare il paese, che lì ci sono bambini, che non vanno a scuola da anni, che hanno perso i loro familiari e aspettano qualcuno che dal dorato Occidente dia loro una mano. Ma da lì qualcuno è riuscito a partire, imbarcandosi per il solito e dannato viaggio della speranza, e qualcuno è riuscito ad arrivare, non tutti ovviamente, come sempre. Una di loro, Jamila, occhi come la pece che mi scrutano seminascosti da un velo color rosa confetto, un lungo velo che la avvolge tutta, piccola com’è, si siede composta davanti a me. Non parla, non si fida, noto che il velo ai lati è strappato in alcuni punti, è scolorito, da lontano mi sembrava perfetta, da vicino noto tutti i segni del suo dolore. Le mani si muovono nervose, la pelle screpolata dal sole, una piccola cicatrice sulla guancia destra. Non ha nulla, nessun bagaglio. Suo marito è morto in mare. Lei ce l’ha fatta. Parlo in arabo, le faccio capire che conosco il suo paese, che amo la sua gente, la sua cultura, che non sono una nemica, dietro il mio sorriso non c’è un fucile pronto a sparare. Le racconto anche un piccolo aneddoto divertente accadutomi al suq di Damasco, in cui ho passato più di un’ora a mercanteggiare e ho bevuto non so quante, forse 10 tazze di tè! Lei accenna un dolce sorriso: – Beh, da noi si usa così … non puoi contrattare se non bevi il tè! – Ci sono riuscita, ho spezzato il muro. Ho creato un piccolo crepaccio, ora sarà più facile. E così è. Lei inizia a raccontare. A poco a poco viene fuori tutto, le atrocità subite dalla sua famiglia, il primo tentativo di fuga fallito, il secondo e riesce a partire con suo marito, suo figlio rimane ad Aleppo, ucciso in mezzo alla strada. Il viaggio. Le difficoltà in mare, le operazioni di salvataggio. Non mi dice tutto, ovviamente, ma la sua sofferenza, il suo immenso dolore è visibile in ogni suo gesto, in ogni suo sguardo. Mi dice: – Sai, non c’è più niente in Siria di tutto quello che hai visto tu, di tutte le cose che piacciono a voi turisti. Non c’è più la moschea di Aleppo, non c’è più il suq, tutto è maceria, tutto è polvere. Non esiste più la Siria, noi siriani non esistiamo perché a nessuno importa realmente di noi. Tutto è finito, khalast. Io sono finita, perché non ho più nulla, neanche il mio paese. Non sono più della Siria, ora di chi sono? – La guardo, ma resto in silenzio. A questa domanda non c’è risposta. Anch’io ancora mi chiedo il perché di tutto quello che sta accadendo, vorrei poter fare qualcosa, ma non posso fare più di questo. Cercare di aiutare quei pochi fortunati che riescono a salvarsi la vita. E quando ripenso che io ero là, solo un mese prima, e niente faceva presagire ciò che sarebbe successo, ma che un vento sotterraneo stava scuotendo animi di guerra, rimango interdetta. Chissà, forse ho incontrato senza saperlo Jamila con la sua famiglia, chissà quante Jamile con i loro veli sgargianti ho incontrato. Donne senza più la loro amata terra della seta, dei profumi, del buon pane e della generosità, dell’ospitalità, della  riconoscenza, del tè a tutte le ore, delle albe dolci e delle sere calde. Donne senza più la loro Siria.

Je suis Charlie: cosa ne pensa un’arabista

Oggi non si può che condannare ciò che è accaduto a Parigi. Io condanno la violenza di un gruppo sparuto di attentatori nei confronti della libertà di pensiero e di parola, nei confronti della satira, dell’ironia, della possibilità di esprimere e di esprimersi. Io sono vicina ai familiari delle vittime della redazione di Charlie Hebdo e partecipo al loro dolore. Io non tollero che al grido di “Allahu akbar” si possa legittimare un attentato in nome di una religione come l’Islam che predica pace e tolleranza tra i popoli da secoli. Anche io oggi sono Charlie e mi indigno per ciò che è successo. Ma quando, girovagando nel web, leggo frasi come questa mi indigno ancora di più:

Se il MASSACRO di Parigi fosse confermato di matrice ISLAMICA, sarebbe chiaro che il nemico ormai ce l’abbiamo IN CASA.
Bloccare l’INVASIONE clandestina in corso, subito.
Verificare chi, come e perché finanzia MOSCHEE e centri islamici.
Chi non rispetta la Vita e la Libertà, non merita niente.
Un pensiero per le povere vittime, disgusto per i politici incapaci.

Eccolo qui. L’estremismo italiano. Ecco come si può generalizzare un’azione di poche persone facenti parte di una cellula terroristica nata e cresciuta in Europa, parlante un perfetto francese. Ecco come un gruppo di persone diventa la totalità che bisogna eliminare dalla faccia della Terra. Ecco come si diffonde la paura, si alzano barriere, si moltiplica il razzismo. Io è di questo che ho terrore. Io è questo ciò che condanno. Continuiamo a esprimere le nostre idee, continuiamo a parlare, a farci sentire, non facciamoci mai chiudere la bocca dalla violenza degli atti e soprattutto da quella delle parole. Non diffondiamo pregiudizi e odio nei confronti delle altre religioni, perché così ci mettiamo alla pari di chi oggi ha premuto il grilletto, perché così diventiamo anche noi integralisti. Io oggi sono Charlie in nome della libertà.

Un camion per la libertà

Italia! Ce l’ho fatta, sono arrivato! E’ questo ciò che ho pensato quando mi hanno tirato fuori, fortunatamente vivo, dalla pancia del camion sulla quale avevo viaggiato per giorni. Accanto a me altri quattro hazara, nessuno è riuscito a vedere il sole italiano. Sono afghano, mi chiamo Daoud e vengo da Mazar-i-Sharif. Non so di preciso quanti anni ho, forse 18 o 19, è tanto tempo che viaggio. Ho passato un paio di anni in Iran e poi, dopo la Turchia ed essere finalmente approdato in Grecia, sapevo già che mi aspettava il mio camion. Funziona così per noi hazara. Non abbiamo documenti, non abbiamo soldi, ma siamo costretti a lasciare il nostro paese per non morire. Ho conosciuto altri afghani che, come me, hanno tentato la sorte. Mi sono sistemato nella pancia stretta, puzzolente, calda, troppo calda, del bestione che mi avrebbe portato verso la salvezza. In terra o in cielo. Non ho mangiato per giorni, avevo male dappertutto, le mie ossa scricchiolavano a ogni piccola buca. A un certo punto non riuscivo più a ragionare con lucidità, non sapevo neanche dove fossi, sapevo solo che dovevo restare lì, nascosto nella mia sofferenza. Potevo solo pregare. Pregavo Allah per me, ma soprattutto per mia madre e le mie sorelle rimaste in Iran. Chissà forse un giorno avrei potuto riabbracciarle. Mio padre e mio fratello sono stati uccisi in Afghanistan, ormai sono io il capofamiglia. Questo ciò che mi ripetevo. Dovevo provare a vivere per salvare la parte che restava della mia famiglia. Quasi privo di forze, tentavo di ricordare la mia dolce infanzia e quegli aquiloni colorati che facevamo volare, su nel cielo azzurro, nella felicità di un abbraccio, di un sorriso della mamma, di una tenera occhiata del papà. Poi credo di essere svenuto, perché non so cosa sia successo, mi sono svegliato, ma intorno a me era buio, non vedevo nulla, mi sembrava di essere su una nave, ma non ne ero sicuro, forse erano solo mie allucinazioni. E poi sono svenuto ancora. E ancora ho riaperto gli occhi, ma ormai non riuscivo più a percepire nulla, la mia mente era vuota. Non ero più Daoud, ero un corpo in fin di vita. E poi alcune mani, tante mani, tutte bianche. Mi hanno preso e mi hanno strattonato per cercare di liberarmi dal mostro che mi teneva ancorato a sé. Un mostro che, paradossalmente, mi aveva salvato la vita. Ho scoperto poi di essere arrivato al porto di Ancona. L’Italia. La terra che tanto avevo sognato, la terra che mi avrebbe ridato la libertà. Sono stato portato in ospedale, dove sono rimasto 17 giorni. Avevo due costole rotte, una grossa ferita al volto, ustioni di secondo grado alle braccia e alle gambe e non ricordo che altro, ma ero vivo. Da quei primi giorni in questo paese sono passati due anni: due anni in cui ho potuto imparare una lingua per me incomprensibile, due anni in cui ho potuto curarmi, due anni in cui ho potuto imparare a cucinare la pizza, due anni in cui ho ottenuto l’asilo. Ora sono un rifugiato e finalmente sono libero. Ho pochi soldi, il lavoro scarseggia, sto pensando di tentare la fortuna in Germania o in Svezia, chissà. Di notte non dormo, ho ancora gli incubi. Rivedo ancora quel mostro nero, che mi ha piegato, ma non mi ha spezzato. In fondo, mi è stato amico: grazie a lui ora sono tornato a essere Daoud, quel bambino che, ormai diventato grande, spera un giorno di far volare un aquilone, felice e spensierato, insieme alla sua famiglia.

Cuore migrante

83Mi piace scrivere e soprattutto mi piace scrivere storie di persone che ho incontrato, che ho amato, che mi hanno lasciato un’emozione, un piccolo segno del loro passaggio nella mia vita. Oggi, però, voglio scrivere un’altra storia, la mia. Anch’io sono stata una migrante. Anch’io ho vissuto il difficile momento della migrazione dal mio paese a un altro estremamente diverso dal mio, anch’io ho dovuto provare a integrarmi in un mondo a me estraneo o per lo meno conosciuto solo sui libri. La mia è stata una scelta, non sono stata costretta ad andarmene, nessuno mi ha privato della mia libertà di movimento e di pensiero. Ma inizialmente la scelta di partire per la Giordania è stata una delle più difficili da prendere: abbandonare la mia famiglia, i miei affetti, la sicurezza della mia casa e delle mie vecchie abitudini, tutto ciò stava per lasciare spazio all’ignoto, al diverso e non posso negare di aver avuto paura. Appena arrivata, la prima impressione non è stata delle migliori. Era un piovoso venerdì di fine marzo, tutti i bar e i negozi serrati per la chiusura settimanale, poche anime in giro per strada. Amman, con le sue casette bianche, sembrava una città fantasma. Mi sono sentita tremendamente sola, se avessi potuto avrei ripreso il primo volo e me ne sarei tornata in Italia, al sicuro. Anche il  solo conversare con il tassista mi metteva a disagio: ma dov’erano finite tutte quelle regole grammaticali della lingua araba che avevo pedissequamente studiato per cinque anni della mia vita? Mi sembrava di non capire più nulla, mi sentivo impotente e nei primi giorni ho martellato di telefonate la mia famiglia, anche solo per sentire una parola di conforto nella mia lingua. A casa abitavo con delle ragazze arabe, che dormivano al piano di sopra e alla prima occasione si rintanavano nelle loro stanze a vedere la tv e io che non riuscivo a farmi una doccia perché l’acqua non era sufficiente neanche per lavarmi i denti e tutte le volte che provavo a fare la lavatrice il pavimento era immancabilmente un lago di sapone. Insomma, non è stato facile. I primi tempi. Poi a poco a poco le cose sono cambiate, ho cercato di non pensare a ciò che avevo lasciato indietro, perché comunque avrei potuto riviverlo, ma di godermi ciò che avevo di fronte, partendo dalle piccole cose: un buon tè alla menta sulla terrazza di un piccolo locale del centro, il melodioso canto del muezzin che chiamava i fedeli alla preghiera, anche se mi svegliava alle cinque del mattino, il  sorriso delle mie coinquiline che mi invitavano a salire da loro per ridere insieme di una buffa soap-opera egiziana, scoprendo che quella che pensavo freddezza nei miei confronti era solo riservatezza. Ho cercato di apprezzare ogni minimo gesto di quello che poi ho trovato essere un popolo estremamente ospitale e gentile, ho cercato di sforzarmi nel parlare in arabo, seppur con mille strafalcioni, perché solo così avrei potuto cogliere ogni sfumatura di quel viaggio che in fondo al cuore avevo sempre sognato. E così mi sono “integrata” o per lo meno ho vissuto il tutto da un altro punto di vista, abolendo i pregiudizi, aprendo gli occhi e affidandomi alle emozioni, all’istinto, tirando fuori forza e tenacia e facendomi coraggio in quei momenti in cui mi sembrava di non farcela. Prima di ripartire per riprendere la mia vita italiana, ho pianto. E ora so, a distanza di anni, che aver compiuto questa esperienza di migrazione, questo viaggio interiore, mi ha reso più consapevole di ciò che c’è al di là del mio naso, di ciò che non è possibile trovare sui libri, perché è vita vera, con tutti i suoi ostacoli e le sue contraddizioni, ma che proprio per questo merita di essere assaporata in ogni suo istante.

Ma fi mushkila

Sono passati tre mesi dal mio arrivo in Italia. Partito dal Sud Sudan, dopo aver attraversato lo sterminato deserto ed essere approdato in Libia, dopo essere scampato alla morte e aver inghiottito la violenza del mare che mi ha ospitato per giorni, sono sbarcato nella piccola isola che tutti chiamano “Lambidusa”. Lì mani esperte mi hanno visitato e messo su un autobus con direzione Bari. Poi, da lì ancora su un altro autobus con direzione Roma, e poi Venezia, infine Ancona. Ho conosciuto delle persone che mi hanno offerto aiuto, una casa, del cibo, la possibilità di studiare la lingua italiana, mi hanno spiegato come andare in Questura, mi hanno detto che potevo parlare con una donna che fa un mestiere che si chiama “bisicologa”. Io non ho capito molto, lei si è presentata come la “dottoressa della testa” e ha iniziato a farmi domande, a parlare, a parlare, a parlare. Vicino a lei c’era un’altra persona che traduceva in arabo e che voleva sapere i fatti miei. Allora, io ho solo detto che non c’era nessun problema. Ma fi mushkila. Ho detto che stavo bene e che mi piaceva l’Italia. Dopo una settimana ci siamo rivisti, voleva sapere qualcosa in più della mia famiglia. Mia madre, mio figlio e mia moglie sono stati uccisi in uno scontro a fuoco a Bor, io mi sono salvato solo perché in quel momento non ero presente, stavo lavorando nel mio negozio di stoffe. Quando ho pensato a loro, quando i loro visi e le loro voci sono rientrati prepotentemente dentro di me, è ricominciato anche un forte mal di testa che non sono riuscito a scacciare. Allora ho solo detto che non sapevo dove fossero, che io ero fuggito dalla guerra e che avevo perso i contatti con loro. Ma sapevo, ero certo che stavano bene. Ma fi mushkila. Quando sono uscito da quella stanza soffocante, volevo solo tornare a casa, sdraiarmi sul letto e chiudere gli occhi con quelle gocce che mi fanno stare meglio, che mi fanno dormire quel poco che basta per poter andare avanti. Per un po’ mi hanno lasciato in pace. Ma poi hanno ricominciato. Ancora domande, ancora aiuto. Non hanno fatto altro che ripetermi che vogliono aiutarmi, che vogliono farmi stare meglio. – Kamal, ascolta, se non ci dici che cosa ti fa star male, noi non possiamo fare niente per te. Non puoi continuare a prendere i farmaci. Dobbiamo capire che cosa è successo. Fidati di noi. – A un certo punto sono scoppiato. – Volete sapere che cos’ho? Volete sapere che cosa voglio? Io voglio morire. Dovete solo lasciarmi morire. – Sono andato via, sono fuggito. Via da loro, via da tutti. Non voglio più pensare, non voglio più ricordare, il dolore è atroce, la testa mi scoppia, il cuore mi martella nel petto. Sono rimasto solo, non ho più nessuno al mondo, ho perso tutto. Perché devo essere obbligato a ricordare? La vita che mi resta non voglio più viverla. Sono fuggito dal mio paese per dimenticare il mio passato. Ma lui è sempre lì, in agguato, è dietro l’angolo. Sento ancora le esplosioni, la gente urlare, i bambini piangere disperati. Vedo ancora le case bruciare e quell’odore acre, pungente, quell’odore di morte. La mia vita è morte. Ora vago per strada, senza una casa, senza un lavoro. Solo quando sarò morto, allora potrò dire davvero, insieme alla mia famiglia, ma fi mushkila.

Una lettera dalla Sierra Leone

Oggi ho deciso di pubblicare una lettera. Una lettera che mi arriva come un colpo dritto al cuore, una lettera che è stata scritta a una mia amica e collega e che mi ha aiutato a capire che cosa sta succedendo in un paese che è stato purtroppo dimenticato. Si tratta della lettera di Peter, un agricoltore e formatore, che vive in Sierra Leone. La sua terra è ormai devastata: le persone muoiono ogni giorno, la situazione è gravissima, gli ospedali non riescono più a ricevere persone, non c’è personale sanitario a sufficienza né equipaggiamento per limitare il contagio, inoltre non si trova più cibo, molte delle Ong internazionali hanno lascito il Paese. Ad oggi possiamo fare ben poco per aiutarli se non sensibilizzare la comunità e fare qualche donazione. Da qualche giorno Medici Senza Frontiere ha avviato la raccolta fondi tramite sms allo 45507, quindi potete contribuire in questo modo per cercare di arginare il contagio (www.medicisenzafrontiere.it/ebola). Vi consiglio inoltre di leggere un articolo pubblicato sull’ultimo numero di Internazionale “Tutto quello che non stiamo facendo contro l’ebola”. In sintesi si afferma che L’Organizzazione mondiale della sanità dovrebbe guidare la lotta contro l’ebola in Africa. Ma i tagli di bilancio degli ultimi anni hanno compromesso la sua capacità d’intervenire. Per questo nessuno ha preso misure efficaci contro la diffusione del virus.

Facciamo qualcosa noi, qualcosa di concreto e reale, parliamone, raccogliamo fondi, sensibilizziamo chi non conosce questo enorme problema e condividiamo tutte le informazioni con qualsiasi strumento! Qui di seguito trovate la lettera di Peter.

Dear Mari Angela,
L oneness for me and others has becomes our
life’s most painful experiences, but its especially difficult when we
are going through a trying situation of hope, were all is not lost in
the name of God, I’m writing to you as part of this family been
trapped in absolute danger of life around this dreadful disease of
Ebola, As you are aware, Sierra Leone has been facing this challenge
for the past four months. Many of us are concerned about our lives and
welfare, especially witnessing the death and discouraging burials of
some of our community members,
My sister,We are really facing difficult life, based on
the rising trend of other basic commodities, medical needs ,fear of
other related illness and cost of treatment, which  has created fear
among restricted people in fear of contracting this disease outside
our home,
Above all, essential requirements for life
sustainability have added a further weight to our suffering standards
for which we now hope on the saving and helping hand of kind friends
in Italy through the intervention of God.
As a friend and sister kindly use the following
information to help, NAME- ( PETER SANIEH KARGBO ) PLACE TO SEND MONEY
-( MONEY GRAM ) INDICATE CODE NUMBER THROUGH TEX OR THROUGH E’MAIL,INDICATE FULL NAME OF SENDER. My greetings and thanks to all family and friends in Italy,pray for us .

yours sincerely Peter s. kargbo

Un dolce di miele e mandorle

–  Ancona, stazione di Ancona – gracchia la voce metallica dall’altoparlante. Io scruto il tabellone velocemente, è tardi, devo muovermi. Intercity da Bari, binario 3. Ok, faccio per precipitarmi giù dalle scale, ma loro sono già lì. Si guardano intorno, spaesati, con il viso muto e guardingo. Hanno una marea di valigie, non so come faremo per trascinarle fino al loro alloggio. Mi avvicino, mi presento, provo a comunicare, ma la nostra conversazione si riduce a qualche parola in italiano, qualcuna in un inglese stentato e molti, troppi silenzi. Mi sento scrutata, letteralmente squadrata da capo a piedi. Mi sento colpevole perché dobbiamo andare a piedi e loro sono già stanchissimi. Provo a parlare con i due ragazzi, di 11 e 16 anni, ma a loro interessa sapere solo se c’è la tv, se possono vedere canali armeni, se possono fare sport. La mamma mi guarda con occhi tristi e il papà cammina spedito a passo di marcia. Non sarà facile, mi dico. Poi corro in ufficio per fare qualche ricerca. Voglio documentarmi sul loro paese e capire meglio la loro storia. Leggo che la famiglia Malakian viene da Yerevan, dalla poco conosciuta Armenia, terra, da quanto ne sappia, in cui non sono in corso conflitti civili. E allora perché hanno richiesto asilo in Italia? Scartabello un po’ i documenti che ho e scopro che lui, il capofamiglia dagli occhi di ghiaccio, era il boss del corpo di polizia e sua moglie gestiva una cooperativa abbastanza conosciuta. Condizioni agiate, grande casa con giardino e vista sull’Ararat, autista personale, scuole private per i figli, possedimenti e beni di grande valore. E allora? Che cosa è successo? Mi cadono gli occhi su un articolo di giornale scritto in inglese. Si parla di “casa bruciata”, “gravi ustioni del figlio maggiore”, “persecuzioni continue”. Vado a leggere qualcos’altro sull’Armenia e scopro che c’è una potente mafia locale che ha a che fare con traffici illeciti di droga, armi e riciclaggio di denaro sporco. Forse il signor Malakian ha scoperto qualcosa che lo ha inevitabilmente condannato. Passano giorni, mesi e per me la famiglia armena resta ancora un mistero. Cerco di fare il mio dovere, li aiuto con l’apprendimento della lingua italiana, vado a casa loro per studiare con i ragazzi, mi offro di aiutarli per vari problemi domestici. Sono gentili, ma assenti. Finché un giorno mi trattengo un po’ di più, scopro anch’io le mie carte, racconto un po’ di me e la signora Anush mi chiede se voglio aiutarla a cucinare un dolce. E’ un’ottima cuoca e tra farina, miele e mandorle, finalmente riesce a sfogarsi. Lasciare la sua vita, le sue comodità, i suoi vestiti, i gioielli fino ad arrivare in Italia, prendere i vestiti alla Caritas, accumularne tanti per credere di essere di nuovo ricca, viaggiare in un treno sporco e poi entrare in un appartamento piccolo, spoglio e iniziare a cucinare, giorno e notte, per non pensare. Per non ricordare quelle fiamme che la circondavano e che hanno portato via mezza spalla del figlio, per non ricordare il viso pestato di suo marito e il terrore negli occhi del figlio minore quando hanno provato ad uccidere anche lei. Costretti alla fuga perché il signor Malakian è stato preso di mira, una persona integerrima e onesta che non riavrà più tutto quello che aveva faticosamente costruito, a partire dalla sua carriera. Dopo quel dolce solo nostro e dopo tanti altri dolci, a distanza di un anno, ho risentito telefonicamente Anush. Ora vivono a Brescia e suo marito lavora come operaio. I figli stanno bene, si sono integrati, hanno molti amici. E lei? Lei sopravvive. Certe volte cucina ancora, altre volte ricorda la sua Armenia con un dolore meno acuto, ripensa alla sua vecchia vita con nostalgia, ma allo stesso tempo sa che era necessario fare quello che ha fatto per la sua famiglia. Guarda le vetrine e sospira amaramente. Non può acquistare nulla, ma al suo ultimo compleanno suo marito le ha regalato una rosa. Questo per lei è già tanto.

Non dimentichiamoli. Siamo tutti gazawi.

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di Manuela Ecate, volontaria Arci Servizio civile in Palestina

 

«M. come stai? Come sta la tua famiglia?» – Una chiamata segue l’altra allo stesso incessante ritmo dettato dal sopraggiungere di notizie. Notizie che riportano numeri. Numeri che erano vite: anziani, donne, uomini e bambini. Centoventuno bambini.  C’era una scuola e una piccola aula dove alcuni di quei bambini provavano a costruirsi un’esistenza che, se non spensierata, conservava lo spazio del gioco e un luogo in cui trovare un abbraccio e un sorriso. Boom! La scuola non esiste più e tu, che a lavorare qui non sei certo venuto per la crisi occupazionale del tuo Paese, quell’esplosione la senti fin dentro il cervello.

Negli ultimi cinque anni la popolazione di Gaza è stata brutalmente attaccata tre volte. Tre devastanti operazioni militari dai nomi altisonanti che tanto impropriamente utilizzano i termini di ‘difesa’ e ‘protezione’. Ma da chi? E per chi? Oltre alle scuole anche gli ospedali sono stati colpiti: medici, infermieri e volontari lavorano incessantemente da giorni senza tregua, senza stipendio e senza sonno. Alcuni tra loro rilasciano interviste, lanciano appelli riponendo fiducia in un’umanità che di certo non può restare silente, non può restare immobile perchè nella voce ferma e determinata del Direttore dell’ormai quasi inesistente ospedale Shifa di Gaza trova il coraggio di credere che non tutto sia perduto ma che la sua azione vada supportata. A seguito dell’inizio della operazione Protective Edge, il Ministero della Salute ha dichiarato lo stato di emergenza a Gaza, riferendo dell’assenza di moltissimi materiali necessari alla cura dei feriti.

Il Ministero della Salute e l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) hanno quindi attivato una operation room a cui partecipano i principali attori coinvolti nella fornitura di cure mediche nella Striscia di Gaza con il compito di monitorare i bisogni del sistema sanitario relativo a, tra gli altri, medicine e materiali sterili e monouso, produrre ed aggiornare le liste delle priorità, coordinare con le autorità israeliane le spedizioni dalla Cisgiordania a Gaza degli aiuti umanitari, distribuire il materiale raccolto tra le strutture di assistenza sanitaria ancora operative nella Striscia. In risposta alla dichiarazione di stato di emergenza del Ministero della Salute palestinese e alla richiesta di un aiuto urgente e concreto, le ONG firmatarie si sono riunite e hanno deciso di lanciare una raccolta fondi nazionale ed internazionale allo scopo di raccogliere donazioni  per l’acquisto di medicinali ed altri materiali sanitari. 

A dieci giorni dall’avvio della campagna, grazie alle donazioni pervenute, è stato possibile ordinare ventimila euro tra farmaci e prodotti monouso che verranno consegnati tra oggi e domani direttamente all’ospedale Shifa di Gaza City. 

Lo stato di emergenza però non solo continua ma si aggrava; in due settimane sono stati uccisi 600 palestinesi e, mentre il Ministro della Giustizia israeliano Tzipi Livni dichiara che «un cessate il fuoco non è vicino», medici, giornalisti, volontari e attivisti continuano a restare al fianco della popolazione gazawi. Nelson Mandela diceva «La libertà è una sola: le catene imposte a uno di noi pesano sulle spalle di tutti». Non dimentichiamolo.

Non dimentichiamoli. Siamo tutti gazawi.

tratto da arci.it