Stasera finalmente la sento. Posso parlare con la mia ragione di vita. Ha una voce così lontana, ma così limpida e trasparente. So che anche lei mi ama come io amo lei più di tutto. Anche più di Dio. Aspetto il momento di ascoltare la sua voce come un miracolo, un evento che mi rende felice per intere giornate, fino a quando ho la fortuna di risentirla ancora. Mana, è questo il suo dolce nome, ha i capelli di un nero corvino, ricci e ribelli, che le accarezzano le spalle e le incorniciano il volto luminoso e quei suoi grandi occhi scuri che hanno visto molto di più di quello che avrebbero dovuto vedere. E’ magra, forse troppo, ma è bella. Di una bellezza sconvolgente. Mi manca non poterla abbracciare, non poterla baciare, stringerla a me e farle sentire tutto il mio amore. Mi manca non poter parlare con lei quanto vorrei e riuscire a rubare solo quei dieci, forse cinque minuti una sera ogni mille, finché dura la corrente in Costa D’Avorio e finché durano i miei pochi spiccioli per pagare la connessione internet. Odio non riuscire ad avere un po’ di intimità con lei, odio condividerla con gli altri avventori dell’internet point, perché lei è solo mia. Sono geloso, geloso come un pazzo. Forse è la lontananza, io in Italia, lei laggiù, nella nostra amata terra, ma una terra così fragile, pericolosa, instabile. Ho paura per lei, so che lì ci sono troppi pericoli, so che ogni giorno potrei perderla e soffro in silenzio, prego Dio di salvarla, piango, a volte mi dispero nella mia solitudine. Sto cercando di portarla qui con me, di fare il ricongiungimento, ma è così difficile. Sono un semplice uomo, con un permesso di soggiorno come rifugiato, che non ha un lavoro, ha un coinquilino maliano che lo aiuta con le spese, sta studiando per diventare una persona migliore, ma che non ha un futuro. Quando penso al domani, mi vedo con lei, ma ciò che ci circonda è sfumato, come circondato da una fitta nebbia che stenta a diradarsi. E noi due insieme, nell’abbraccio di Dio. Lui è il mio conforto, il mio rifugio, se non avessi Lui non so come andrei avanti.
Sono passate due settimane e ho saputo che Mana è malata. Sì, ora lei, la mia gioia, è malata. Sto cercando di mandarle dei soldi, tramite il mio migliore amico che l’ha portata in ospedale, ma ne ho così pochi che non bastano neanche per un paio di medicine. Non so che malattia ha, non so se sia grave, vorrei poterla vedere, vorrei assicurarmi che guarisca, ma non posso fare niente di tutto ciò. Devo solo aspettare. Aspettare nel mio dolore. Aspettare nel dolore di un padre che non sa se potrà mai riabbracciare sua figlia. Sono migrato in Italia per salvarmi la vita e per costruirmene una nuova, ma sarebbe tutto inutile se lei, di appena quattro anni, morisse e mi lasciasse solo e disperato. Sua madre, la mia ex moglie, l’ha abbandonata al suo destino e ora ha un’altra famiglia. Lei ha solo me e io solo lei. Oggi ho iniziato uno stage in un’importante azienda, una speranza in più per noi due. Se mi assumeranno forse potrò guadagnare quei soldi che mi occorrono per lei, per farla stare bene e poi per portarla da me. Una volta che saremo insieme tutto questo dolore che mi attanaglia lo stomaco sparirà e allora potrò dire davvero che il mio duro e infinito viaggio mi ha regalato una nuova vita.

Sono stata in Siria agli inizi di gennaio 2011, esattamente un mese prima che scoppiasse la rivoluzione. Se vogliamo chiamarla così. Perché quella rivoluzione, così simile ai venti che spiravano in Nord Africa, è poi degenerata quasi subito in guerra. Una guerra atroce, una guerra che si è portata via gran parte del popolo siriano, una guerra silenziosa, che passa sotto ponti e finte manovre di pace, una guerra che dura inesorabile da quattro anni e di cui non si sente mai parlare. Solo sporadicamente qualche timido giornalista si ricorda che anche la Siria esiste, che lì ci sono profughi senza più nulla che non sanno dove andare e non riescono a lasciare il paese, che lì ci sono bambini, che non vanno a scuola da anni, che hanno perso i loro familiari e aspettano qualcuno che dal dorato Occidente dia loro una mano. Ma da lì qualcuno è riuscito a partire, imbarcandosi per il solito e dannato viaggio della speranza, e qualcuno è riuscito ad arrivare, non tutti ovviamente, come sempre. Una di loro, Jamila, occhi come la pece che mi scrutano seminascosti da un velo color rosa confetto, un lungo velo che la avvolge tutta, piccola com’è, si siede composta davanti a me. Non parla, non si fida, noto che il velo ai lati è strappato in alcuni punti, è scolorito, da lontano mi sembrava perfetta, da vicino noto tutti i segni del suo dolore. Le mani si muovono nervose, la pelle screpolata dal sole, una piccola cicatrice sulla guancia destra. Non ha nulla, nessun bagaglio. Suo marito è morto in mare. Lei ce l’ha fatta. Parlo in arabo, le faccio capire che conosco il suo paese, che amo la sua gente, la sua cultura, che non sono una nemica, dietro il mio sorriso non c’è un fucile pronto a sparare. Le racconto anche un piccolo aneddoto divertente accadutomi al suq di Damasco, in cui ho passato più di un’ora a mercanteggiare e ho bevuto non so quante, forse 10 tazze di tè! Lei accenna un dolce sorriso: – Beh, da noi si usa così … non puoi contrattare se non bevi il tè! – Ci sono riuscita, ho spezzato il muro. Ho creato un piccolo crepaccio, ora sarà più facile. E così è. Lei inizia a raccontare. A poco a poco viene fuori tutto, le atrocità subite dalla sua famiglia, il primo tentativo di fuga fallito, il secondo e riesce a partire con suo marito, suo figlio rimane ad Aleppo, ucciso in mezzo alla strada. Il viaggio. Le difficoltà in mare, le operazioni di salvataggio. Non mi dice tutto, ovviamente, ma la sua sofferenza, il suo immenso dolore è visibile in ogni suo gesto, in ogni suo sguardo. Mi dice: – Sai, non c’è più niente in Siria di tutto quello che hai visto tu, di tutte le cose che piacciono a voi turisti. Non c’è più la moschea di Aleppo, non c’è più il suq, tutto è maceria, tutto è polvere. Non esiste più la Siria, noi siriani non esistiamo perché a nessuno importa realmente di noi. Tutto è finito, khalast. Io sono finita, perché non ho più nulla, neanche il mio paese. Non sono più della Siria, ora di chi sono? – La guardo, ma resto in silenzio. A questa domanda non c’è risposta. Anch’io ancora mi chiedo il perché di tutto quello che sta accadendo, vorrei poter fare qualcosa, ma non posso fare più di questo. Cercare di aiutare quei pochi fortunati che riescono a salvarsi la vita. E quando ripenso che io ero là, solo un mese prima, e niente faceva presagire ciò che sarebbe successo, ma che un vento sotterraneo stava scuotendo animi di guerra, rimango interdetta. Chissà, forse ho incontrato senza saperlo Jamila con la sua famiglia, chissà quante Jamile con i loro veli sgargianti ho incontrato. Donne senza più la loro amata terra della seta, dei profumi, del buon pane e della generosità, dell’ospitalità, della riconoscenza, del tè a tutte le ore, delle albe dolci e delle sere calde. Donne senza più la loro Siria.
Oggi non si può che condannare ciò che è accaduto a Parigi. Io condanno la violenza di un gruppo sparuto di attentatori nei confronti della libertà di pensiero e di parola, nei confronti della satira, dell’ironia, della possibilità di esprimere e di esprimersi. Io sono vicina ai familiari delle vittime della redazione di Charlie Hebdo e partecipo al loro dolore. Io non tollero che al grido di “Allahu akbar” si possa legittimare un attentato in nome di una religione come l’Islam che predica pace e tolleranza tra i popoli da secoli. Anche io oggi sono Charlie e mi indigno per ciò che è successo. Ma quando, girovagando nel web, leggo frasi come questa mi indigno ancora di più:
Italia! Ce l’ho fatta, sono arrivato! E’ questo ciò che ho pensato quando mi hanno tirato fuori, fortunatamente vivo, dalla pancia del camion sulla quale avevo viaggiato per giorni. Accanto a me altri quattro hazara, nessuno è riuscito a vedere il sole italiano. Sono afghano, mi chiamo Daoud e vengo da Mazar-i-Sharif. Non so di preciso quanti anni ho, forse 18 o 19, è tanto tempo che viaggio. Ho passato un paio di anni in Iran e poi, dopo la Turchia ed essere finalmente approdato in Grecia, sapevo già che mi aspettava il mio camion. Funziona così per noi hazara. Non abbiamo documenti, non abbiamo soldi, ma siamo costretti a lasciare il nostro paese per non morire. Ho conosciuto altri afghani che, come me, hanno tentato la sorte. Mi sono sistemato nella pancia stretta, puzzolente, calda, troppo calda, del bestione che mi avrebbe portato verso la salvezza. In terra o in cielo. Non ho mangiato per giorni, avevo male dappertutto, le mie ossa scricchiolavano a ogni piccola buca. A un certo punto non riuscivo più a ragionare con lucidità, non sapevo neanche dove fossi, sapevo solo che dovevo restare lì, nascosto nella mia sofferenza. Potevo solo pregare. Pregavo Allah per me, ma soprattutto per mia madre e le mie sorelle rimaste in Iran. Chissà forse un giorno avrei potuto riabbracciarle. Mio padre e mio fratello sono stati uccisi in Afghanistan, ormai sono io il capofamiglia. Questo ciò che mi ripetevo. Dovevo provare a vivere per salvare la parte che restava della mia famiglia. Quasi privo di forze, tentavo di ricordare la mia dolce infanzia e quegli aquiloni colorati che facevamo volare, su nel cielo azzurro, nella felicità di un abbraccio, di un sorriso della mamma, di una tenera occhiata del papà. Poi credo di essere svenuto, perché non so cosa sia successo, mi sono svegliato, ma intorno a me era buio, non vedevo nulla, mi sembrava di essere su una nave, ma non ne ero sicuro, forse erano solo mie allucinazioni. E poi sono svenuto ancora. E ancora ho riaperto gli occhi, ma ormai non riuscivo più a percepire nulla, la mia mente era vuota. Non ero più Daoud, ero un corpo in fin di vita. E poi alcune mani, tante mani, tutte bianche. Mi hanno preso e mi hanno strattonato per cercare di liberarmi dal mostro che mi teneva ancorato a sé. Un mostro che, paradossalmente, mi aveva salvato la vita. Ho scoperto poi di essere arrivato al porto di Ancona. L’Italia. La terra che tanto avevo sognato, la terra che mi avrebbe ridato la libertà. Sono stato portato in ospedale, dove sono rimasto 17 giorni. Avevo due costole rotte, una grossa ferita al volto, ustioni di secondo grado alle braccia e alle gambe e non ricordo che altro, ma ero vivo. Da quei primi giorni in questo paese sono passati due anni: due anni in cui ho potuto imparare una lingua per me incomprensibile, due anni in cui ho potuto curarmi, due anni in cui ho potuto imparare a cucinare la pizza, due anni in cui ho ottenuto l’asilo. Ora sono un rifugiato e finalmente sono libero. Ho pochi soldi, il lavoro scarseggia, sto pensando di tentare la fortuna in Germania o in Svezia, chissà. Di notte non dormo, ho ancora gli incubi. Rivedo ancora quel mostro nero, che mi ha piegato, ma non mi ha spezzato. In fondo, mi è stato amico: grazie a lui ora sono tornato a essere Daoud, quel bambino che, ormai diventato grande, spera un giorno di far volare un aquilone, felice e spensierato, insieme alla sua famiglia.
Sono passati tre mesi dal mio arrivo in Italia. Partito dal Sud Sudan, dopo aver attraversato lo sterminato deserto ed essere approdato in Libia, dopo essere scampato alla morte e aver inghiottito la violenza del mare che mi ha ospitato per giorni, sono sbarcato nella piccola isola che tutti chiamano “Lambidusa”. Lì mani esperte mi hanno visitato e messo su un autobus con direzione Bari. Poi, da lì ancora su un altro autobus con direzione Roma, e poi Venezia, infine Ancona. Ho conosciuto delle persone che mi hanno offerto aiuto, una casa, del cibo, la possibilità di studiare la lingua italiana, mi hanno spiegato come andare in Questura, mi hanno detto che potevo parlare con una donna che fa un mestiere che si chiama “bisicologa”. Io non ho capito molto, lei si è presentata come la “dottoressa della testa” e ha iniziato a farmi domande, a parlare, a parlare, a parlare. Vicino a lei c’era un’altra persona che traduceva in arabo e che voleva sapere i fatti miei. Allora, io ho solo detto che non c’era nessun problema. Ma fi mushkila. Ho detto che stavo bene e che mi piaceva l’Italia. Dopo una settimana ci siamo rivisti, voleva sapere qualcosa in più della mia famiglia. Mia madre, mio figlio e mia moglie sono stati uccisi in uno scontro a fuoco a Bor, io mi sono salvato solo perché in quel momento non ero presente, stavo lavorando nel mio negozio di stoffe. Quando ho pensato a loro, quando i loro visi e le loro voci sono rientrati prepotentemente dentro di me, è ricominciato anche un forte mal di testa che non sono riuscito a scacciare. Allora ho solo detto che non sapevo dove fossero, che io ero fuggito dalla guerra e che avevo perso i contatti con loro. Ma sapevo, ero certo che stavano bene. Ma fi mushkila. Quando sono uscito da quella stanza soffocante, volevo solo tornare a casa, sdraiarmi sul letto e chiudere gli occhi con quelle gocce che mi fanno stare meglio, che mi fanno dormire quel poco che basta per poter andare avanti. Per un po’ mi hanno lasciato in pace. Ma poi hanno ricominciato. Ancora domande, ancora aiuto. Non hanno fatto altro che ripetermi che vogliono aiutarmi, che vogliono farmi stare meglio. – Kamal, ascolta, se non ci dici che cosa ti fa star male, noi non possiamo fare niente per te. Non puoi continuare a prendere i farmaci. Dobbiamo capire che cosa è successo. Fidati di noi. – A un certo punto sono scoppiato. – Volete sapere che cos’ho? Volete sapere che cosa voglio? Io voglio morire. Dovete solo lasciarmi morire. – Sono andato via, sono fuggito. Via da loro, via da tutti. Non voglio più pensare, non voglio più ricordare, il dolore è atroce, la testa mi scoppia, il cuore mi martella nel petto. Sono rimasto solo, non ho più nessuno al mondo, ho perso tutto. Perché devo essere obbligato a ricordare? La vita che mi resta non voglio più viverla. Sono fuggito dal mio paese per dimenticare il mio passato. Ma lui è sempre lì, in agguato, è dietro l’angolo. Sento ancora le esplosioni, la gente urlare, i bambini piangere disperati. Vedo ancora le case bruciare e quell’odore acre, pungente, quell’odore di morte. La mia vita è morte. Ora vago per strada, senza una casa, senza un lavoro. Solo quando sarò morto, allora potrò dire davvero, insieme alla mia famiglia, ma fi mushkila.
Oggi ho deciso di pubblicare una lettera. Una lettera che mi arriva come un colpo dritto al cuore, una lettera che è stata scritta a una mia amica e collega e che mi ha aiutato a capire che cosa sta succedendo in un paese che è stato purtroppo dimenticato. Si tratta della lettera di Peter, un agricoltore e formatore, che vive in Sierra Leone. La sua terra è ormai devastata: le persone muoiono ogni giorno, la situazione è gravissima, gli ospedali non riescono più a ricevere persone, non c’è personale sanitario a sufficienza né equipaggiamento per limitare il contagio, inoltre non si trova più cibo, molte delle Ong internazionali hanno lascito il Paese. Ad oggi possiamo fare ben poco per aiutarli se non sensibilizzare la comunità e fare qualche donazione. Da qualche giorno Medici Senza Frontiere ha avviato la raccolta fondi tramite sms allo 45507, quindi potete contribuire in questo modo per cercare di arginare il contagio (www.medicisenzafrontiere.it/ebola). Vi consiglio inoltre di leggere un articolo pubblicato sull’ultimo numero di Internazionale “Tutto quello che non stiamo facendo contro l’ebola”. In sintesi si afferma che L’Organizzazione mondiale della sanità dovrebbe guidare la lotta contro l’ebola in Africa. Ma i tagli di bilancio degli ultimi anni hanno compromesso la sua capacità d’intervenire. Per questo nessuno ha preso misure efficaci contro la diffusione del virus.
– Ancona, stazione di Ancona – gracchia la voce metallica dall’altoparlante. Io scruto il tabellone velocemente, è tardi, devo muovermi. Intercity da Bari, binario 3. Ok, faccio per precipitarmi giù dalle scale, ma loro sono già lì. Si guardano intorno, spaesati, con il viso muto e guardingo. Hanno una marea di valigie, non so come faremo per trascinarle fino al loro alloggio. Mi avvicino, mi presento, provo a comunicare, ma la nostra conversazione si riduce a qualche parola in italiano, qualcuna in un inglese stentato e molti, troppi silenzi. Mi sento scrutata, letteralmente squadrata da capo a piedi. Mi sento colpevole perché dobbiamo andare a piedi e loro sono già stanchissimi. Provo a parlare con i due ragazzi, di 11 e 16 anni, ma a loro interessa sapere solo se c’è la tv, se possono vedere canali armeni, se possono fare sport. La mamma mi guarda con occhi tristi e il papà cammina spedito a passo di marcia. Non sarà facile, mi dico. Poi corro in ufficio per fare qualche ricerca. Voglio documentarmi sul loro paese e capire meglio la loro storia. Leggo che la famiglia Malakian viene da Yerevan, dalla poco conosciuta Armenia, terra, da quanto ne sappia, in cui non sono in corso conflitti civili. E allora perché hanno richiesto asilo in Italia? Scartabello un po’ i documenti che ho e scopro che lui, il capofamiglia dagli occhi di ghiaccio, era il boss del corpo di polizia e sua moglie gestiva una cooperativa abbastanza conosciuta. Condizioni agiate, grande casa con giardino e vista sull’Ararat, autista personale, scuole private per i figli, possedimenti e beni di grande valore. E allora? Che cosa è successo? Mi cadono gli occhi su un articolo di giornale scritto in inglese. Si parla di “casa bruciata”, “gravi ustioni del figlio maggiore”, “persecuzioni continue”. Vado a leggere qualcos’altro sull’Armenia e scopro che c’è una potente mafia locale che ha a che fare con traffici illeciti di droga, armi e riciclaggio di denaro sporco. Forse il signor Malakian ha scoperto qualcosa che lo ha inevitabilmente condannato. Passano giorni, mesi e per me la famiglia armena resta ancora un mistero. Cerco di fare il mio dovere, li aiuto con l’apprendimento della lingua italiana, vado a casa loro per studiare con i ragazzi, mi offro di aiutarli per vari problemi domestici. Sono gentili, ma assenti. Finché un giorno mi trattengo un po’ di più, scopro anch’io le mie carte, racconto un po’ di me e la signora Anush mi chiede se voglio aiutarla a cucinare un dolce. E’ un’ottima cuoca e tra farina, miele e mandorle, finalmente riesce a sfogarsi. Lasciare la sua vita, le sue comodità, i suoi vestiti, i gioielli fino ad arrivare in Italia, prendere i vestiti alla Caritas, accumularne tanti per credere di essere di nuovo ricca, viaggiare in un treno sporco e poi entrare in un appartamento piccolo, spoglio e iniziare a cucinare, giorno e notte, per non pensare. Per non ricordare quelle fiamme che la circondavano e che hanno portato via mezza spalla del figlio, per non ricordare il viso pestato di suo marito e il terrore negli occhi del figlio minore quando hanno provato ad uccidere anche lei. Costretti alla fuga perché il signor Malakian è stato preso di mira, una persona integerrima e onesta che non riavrà più tutto quello che aveva faticosamente costruito, a partire dalla sua carriera. Dopo quel dolce solo nostro e dopo tanti altri dolci, a distanza di un anno, ho risentito telefonicamente Anush. Ora vivono a Brescia e suo marito lavora come operaio. I figli stanno bene, si sono integrati, hanno molti amici. E lei? Lei sopravvive. Certe volte cucina ancora, altre volte ricorda la sua Armenia con un dolore meno acuto, ripensa alla sua vecchia vita con nostalgia, ma allo stesso tempo sa che era necessario fare quello che ha fatto per la sua famiglia. Guarda le vetrine e sospira amaramente. Non può acquistare nulla, ma al suo ultimo compleanno suo marito le ha regalato una rosa. Questo per lei è già tanto.