La principessa dagli occhi di giada

downloadMi chiamo Samira e ho 5 anni. Da quando avevo 3 anni sogno di essere una principessa, di avere un grande palazzo e di trovare un bel principe sul suo cavallo alato. Un giorno la mia mamma mi ha detto che dovevamo andare via dal nostro villaggio. Noi abitavamo vicino a una città che si chiama Mogadiscio, in un paese in Africa, la Somalia. Il mio villaggio mi piaceva, avevamo una casa di terra e paglia e lì abitavano anche la mia sorellina, il mio fratellino e i miei nonni. Mio fratello era un po’ malato, perché aveva avuto un incidente e così stava sempre a letto e non vedeva più. Mamma dice che gli era andata a finire una pallina di fuoco nella faccia per colpa della guerra. Io non lo so bene, perché non c’ero, in quel momento ero con la mia amica Muna a giocare. Ho pensato subito che, andando via dal nostro villaggio, non avrei più giocato con lei e mi è venuto da piangere, però mamma mi ha detto che saremmo andate in un posto più bello, dove avremmo avuto un grande palazzo e saremmo state trattate da principesse e soprattutto dove non avremmo più sentito il rumore della guerra. Non so cosa sia la guerra, ma ho pensato a quello che era successo a mio fratello e così sono partita più felice. Abbiamo fatto un viaggio lunghissimo. Io ho dormito molto, e, ogni volta che mi svegliavo, vedevo tante persone che non conoscevo. Avevo fame e sete, ma non avevamo quasi niente e così cercavo di non piangere perché sapevo che, quando saremmo arrivate, avremmo avuto tante cose buone da mangiare. A un certo punto mi sono ritrovata in una barca e mi sono detta: “Che bello! Finalmente siamo al mare! Sicuramente andiamo in un’isola dove ci sono dei palazzi meravigliosi!”. Ma il viaggio non è stato facile, non arrivavamo mai, ho visto delle ferite sulle gambe della mia mamma e non so bene cosa sia successo. Alcuni momenti non li ricordo. Mi sembrava di essere in un sogno strano, con facce di uomini che, come mostri marini, urlavano, sputavano, ci davano calci e ci spingevano, mentre il velo verde della mia mamma cercava di proteggermi. Alla fine siamo arrivate. Il mare era mosso, ho visto delle persone che sono cadute in acqua, io sono stata presa in braccio da una signora tutta bianca con i capelli gialli: ho pensato che, per essere così bianca, doveva bere molto latte e che magari ce ne avrebbe dato un po’. Da quel giorno, ho visto tante altre facce bianche con bocche che hanno parlato una lingua che non capivo, mani bianche che mi hanno visitato e dato da mangiare. Mamma mi ha detto che questo posto nuovo si chiama Italia. L’Italia è molto diversa dalla Somalia. Anche le case. All’inizio siamo stati tutti noi neri insieme, dentro un solo palazzo, e faceva troppo caldo e un po’ puzzava. Tutti mi sembravano arrabbiati, anche la mia mamma non era contenta e mi sono detta che allora forse era meglio che fossimo rimaste in Somalia. Poi ci hanno mandato in una città che si chiama Ancona, vicino al mare, e ci hanno portato in una casa vera: un palazzo con una camera tutta per noi, con una stanza grande dove giocare. Ho conosciuto altri bambini e ho iniziato ad andare a scuola. Mi piace perché coloriamo, ci divertiamo e ora capisco un po’ di più quando mi parlano. Qui le persone non sorridono tanto e anche la mamma sta diventando un po’ bianca. Dice che qui non c’è il lavoro. Forse il lavoro è una cosa importante, perché lei è diventata più triste, dice che non abbiamo i soldi, che quelli che prima ci aiutavano non ci aiutano più, che abbiamo pochi vestiti e poche cose da mangiare. Ci manca la nostra famiglia. Un giorno vorrei tanto che nel nostro palazzo arrivino i miei fratelli e i miei nonni con un cavallo alato, che ci abbraccino forte e che ci riportino in Somalia. Così forse rivedrei il sorriso di mamma e potrei essere per sempre una vera principessa.     

Il coraggio dei rifugiati

Il rifugiato è colui “che temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra” [Articolo 1A della Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati].

Il 20 giugno è la giornata mondiale del rifugiato: da questo stralcio della convenzione di Ginevra si evince che un rifugiato è una persona perseguitata, è una persona che, per motivi politici, religiosi, etnici o altro, è costretto a lasciare la sua casa, la sua famiglia, i suoi amici, il suo paese. Il rifugiato non è un migrante qualsiasi, non è una persona che si muove per cercare un lavoro. Il rifugiato è una persona che fugge, che trema, che è tormentato dalla paura. Il 20 giugno è la giornata che lo ricorda, che ci ricorda che nel mondo esistono più paesi in guerra, paesi stremati da conflitti civili e battaglie sanguinose, che paesi in pace. E’ la giornata che ci ricorda che ci sono migliaia di persone che si mettono in viaggio senza sapere se riusciranno ad arrivare a destinazione o diverranno un corpo senza nome nelle acque dei nostri mari o nel silenzio del deserto. E’la giornata che dovrebbe ricordarci di essere un po’ meno egoisti, di dare una mano quando possiamo aiutare chi ci guarda senza speranza, chi ha perso tutto e arriva in Italia solo con la sua anima lacerata dalle sofferenze, chi ha visto morire un figlio, chi pensa di non farcela più. Ma non si tratta di partecipare agli eventi organizzati dalla propria città, alle manifestazioni o alle proiezioni di immagini già viste e riviste corredate da un succulento aperitivo etnico. Si tratta di ricordarci di loro, degli “invisibili”, tutti i giorni dell’anno e di provare a metterci nei loro panni. Immaginiamo che esploda improvvisamente un conflitto irrisolvibile nel nostro paese. Saremmo disposti ad abbandonare tutto quello che con fatica e sudore abbiamo costruito nel corso degli anni? Ad abbandonare i nostri più cari affetti senza sapere se un giorno avremmo la fortuna di poterli riabbracciare? Saremmo disposti a fuggire senza avere nulla in cambio e soprattutto senza la certezza di un futuro sereno davanti a noi? Io ogni tanto ci penso. E forse sì, forse ci riuscirei, sapendo che è l’unica strada per salvarmi la vita. La morte è lì che mi spia da dietro l’angolo, che mi mette davanti ostacoli insormontabili, ma io devo tirare fuori tutta la mia forza e il mio coraggio per poi non pentirmi di non aver provato ad aiutare non solo me stessa, ma anche tutti quelli che, rimasti nel costante pericolo del mio paese, aspettano mie notizie e i miei aiuti economici da una terra che non conosco. Ma con quanta paura, quanta tristezza lo farei? Un dolore che mi spezzerebbe il cuore in mille pezzi. Un dolore che mi porterei dietro per sempre. Vi invito a riflettere su queste mie parole e a guardare con occhi diversi quelle persone che arrivano sulle carrette del mare e che erroneamente molti di noi credono siano venuti solo per “rubarci” un lavoro che non c’è. Vi invito a ricordarvi di loro, ogni tanto di far loro un sorriso se li incontrate sui vostri passi, di non essere timorosi nei loro confronti. Perché la parola Accoglienza non rimanga solo una parola.

Arriva Radio Passagers: la radio dei migranti

Venti anni di esperienza e un lungo percorso “africano” in seno a Reporter sans Frontières, hanno portato il giornalista Léonard Vincent (attuale corrispondente di RFI e Radio France in Marocco), alla creazione di una nuova piattaforma radiofonica alquanto innovativa.

Il progetto si chiama “Radio Passagers – La voix des migrants” ed è dedicato a chi migra, transita, sogna di partire o a chi è già arrivato a destinazione. Lo scopo è di mettere a disposizione una vasta gamma di programmi radiofonici gratuiti, scaricabili sul telefono portatile o lettore mp3, destinato ai migranti, rifugiati e richiedenti asilo. Un vero e proprio atelier radiofonico, per il quale il produttore e i giornalisti incaricati creeranno, con i loro propri mezzi, dei programmi semplici, creativi e ludici, accessibili a tutti e a tutte. I programmi saranno animati e coordinati da un conduttore basato a tempo pieno a Parigi, i reportage, così come alcuni programmi, saranno invece creati dai corrispondenti di RFI o da altri media francesi basati nei paesi di transito o destinazione dei migranti.

Poi c’è il pubblico che è invitato ad interagire in maniera diretta, tramite la regola “coloro che hanno un po’ contribuiranno per “coloro che non hanno niente” sarà possibile fare una donazione alla radio regalando dei minuti di emissione a persone che non possono permetterselo, mettendo in moto un vero e proprio sistema di “sponsorizzazione partecipativa”La radio per il momento resta in lingua francese, lingua comune di diversi migranti provenienti dall’Africa Subsahariana. “Se il progetto funzionerà, l’idea è di realizzare una radio simile in arabo, inglese, farsi… ovvero in tutte le lingue di ‘coloro che passano’, per riprendere la magnifica espressione che la giornalista Haydéè Sabéran ha scelto come titolo del suo libro”, spiega l’autore.

Radio Passagers vuole essere anche un luogo di incontro di momenti da condividere e da trasmettere in diretta: i membri potranno comprarsi dei ‘minuti di antenna’ per raccontarsi, condividere una lettura, una canzone o la propria esperienza, con la parola d’ordine selezionata dall’iniziativa “Stiamo insieme”.

Come è nata questa idea? L’autore spiega come il progetto voglia rispondere ad alcune questioni che si è posto durante i suoi numerosi viaggi nel continente africano: “I migranti che ho incontrato in Marocco semplicemente non hanno mezzi di comunicazione a disposizione, sono le loro famiglie che li informano al telefono, una volta ogni tanto. […] Rimasti soli, estranei alle società che attraversano o in cui attendono pazientemente, gli immigrati vivono spesso in uno stato di angoscia e di vuoto psicologico. Nessuno parla loro, parla di loro, dei loro problemi, delle loro esperienze del passato e del futuro di questo doloroso auto-perpetuarsi. – e continua – Nessuno viene ad occupare il posto lasciato vacante dalla durezza dell’esilio, tutti mi hanno detto che aspettano che gli si parli, che li si informi, che si arrivi fino a loro con delle parole”.

Per questo Radio Passagers vuole rispondere a profonde esigenze culturali, sociali e politiche fornendo programmi di qualità per tutti, gratuitamente, facilmente, con l’aiuto di alcuni, a beneficio di altri. Pertanto, “Nulla vieta ad un francese di Saint-Étienne di ascoltare con interesse le discussioni sulla storia dei paesi di transito, i nostri programmi musicali, le nostre lezioni wolof, arabo o bambara”.

L’iniziativa è in corso di finanziamento ed è possibile contribuire qui al lancio della piattaforma previsto per il prossimo autunno.

Per maggiori informazioni visitate il sito, la pagina facebook e twitter.

tratto da mmc2000.net

No borders train: io parto e voi?

Milano. Sabato 21 giugno – La nostra Europa non ha confini: un treno per violare le frontiere europee

No borders train. Ore 14.00. Da ogni parte d’Italia verso la Stazione Centrale di Milano e poi oltre i confini europei

Questa ennesima “emergenza immigrazione”, con migliaia di persone in fuga da guerre e violenze in approdo sulle coste italiane, porta con sé, come sempre, tutto il suo corollario di violazioni, prassi illegittime, deroghe ai diritti, ipocrisie e speculazioni. Accade nel mare del sud, dove ancora si muore, alla faccia di Mare Nostrum, così come alle frontiere interne dell’Europa che ingabbiano migliaia di persone nel primo paese d’approdo, passando per il “piano di accoglienza straordinaria” del governo, una nuova occasione per fare affari sulla pelle dei migranti. Si tratta di uno scenario che il risultato delle recenti elezioni europee rischia solo di aggravare trasformando l’Europa in un vero e proprio campo di battaglia in cui i confini giocano un ruolo determinante.

Chi arriva sulle coste italiane oggi fugge da violenze e persecuzioni. Per questo rivendichiamo la necessità di mettere in campo l’unica soluzione possibile per evitare le morti in mare e la speculazione dei trafficanti: la costruzione di percorsi di arrivo autorizzati e sicuri in Europa. Di fronte a questo le istituzioni europee e quelle nazionali tacciono.

Ma il viaggio in mare non è l’unica occasione in cui i migranti sono costretti a sfidare i confini europei. Perché un’altra odissea inizia una volta raggiunta l’Europa. Per chi rimane, il dispositivo dell’accoglienza messo in campo dal governo non è in grado di garantire null’altro se non mesi di attesa e assistenzialismo speculativo, aggravato dal fatto che ancora una volta sono stati aggirati i circuiti ufficiali dello SPRAR procedendo alla “distribuzione” dei profughi al miglior offerente. 
Non è un caso che migliaia di rifugiati abbandonati dalle istituzioni di questo paese siano costretti ad occupare casa come unica possibilità di assicurarsi un tetto, mente il governo, con il decreto Lupi, vorrebbe sottrargli anche il diritto alla residenza ed alle utenze.
Per questo, per costruire e conquistare dal basso i diritti che altri continuano a negare, proponiamo a tutti di dar vita ad una rete di supporto. Una mappa di luoghi e contatti a disposizione di chi si muove per raggiungere altri Stati e di chi rimane e rischia di veder negata la sua domanda d’asilo, o vive in condizioni di accoglienza indegne in attesa di sapere cosa sarà del suo futuro dopo il 30 giugno, data di scadenza delle convenzioni del Ministero con i centri.

Ma oggi la questione dell’asilo e delle migrazioni interroga nell’immediato, come non mai, anche l’Europa, le sue geometrie, gli egoismi degli stati, la nostra possibilità di costruire uno spazio europeo che non sia dominato da austerity, precarietà e esclusioni. Nulla a che vedere con gli schiamazzi del Ministro Alfano che, mentre invoca la revisione di Dublino, continua a respingere verso la Grecia i rifugiati ai porti dell’Adriatico.

Gran parte dei migranti che arrivano in Italia mirano ad andarsene per raggiungere altri paesi. Ma mentre nel Vecchio Continente merci e finanze circolano liberamente, i confini bloccano e dividono, selezionano le persone rivelando tutta la loro ipocrisia. 
Così migliaia di “profughi” sono privati del loro diritto di scelta, costretti a rimanere ingabbiati in Italia oppure a pagare profumatamente gli sciacalli che sulle regole dell’Europa stanno facendo fortune.

Il 26 e 27 giugno prossimi il Consiglio europeo si riunirà a Bruxelless per discutere di frontiere, pattugliamenti e nuove regole operative. Negli stessi giorni arriverà nella capitale belga la “Marcia dei rifugiati” a cui parteciperemo insieme a centinaia di migranti ed attivisti da tutta Europa. Poco dopo, l’11 luglio, a Torino, i leader dei paesi europei si ritroveranno a discutere invece di (dis)occupazione giovanile.

Questa agenda ufficiale è anche l’occasione per i movimenti (tutti) di costruire insieme un’ agenda programmatica di lotte e conflitti, di battaglie e percorsi di condivisione, per continuare a tessere le fila di un movimento europeo di trasformazione.

Per questo invitiamo tutti a sfidare i confini dell’Europa insieme ai migranti ed ai rifugiati ingabbiati in questo Paese. Perché quello che sta avvenendo intorno alle frontiere che dividono l’Italia dalla Francia, la Svizzera e l’Austria ha bisogno di una risposta immediata. 
Per mettere fine alla violenza ed all’ipocrisia del confine, per sostenere la marcia dei rifugiati, per dare concretezza a quanto affermato nella Carta di Lampedusa, perché le frontiere dell’Europa sono un pezzo della nostra precarietà, tanto più oggi, quando la libertà di movimento è messa in discussione anche per gli stessi cittadini degli Stati membri.

Sosteniamo il no borders train. Per fermare l’ingiustizia dei confini europei

Invitiamo tutti a raggiungere la Stazione Centrale di Milano, il prossimo sabato 21 giugno, alle ore 14.00, con carovane grandi e piccole, per poi partire in treno verso le frontiere europee, e violarle collettivamente, alla luce del sole, in tanti, rivendicando, insieme ai migranti, la nostra EUROPA senza confini.

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tratto da meltingpot.org

Sassari: nasce il dizionario sardo-inglese!

Più che un punto d’arrivo è l’avvio di un percorso più ampio che vede l’Alberghiero un’altra volta in prima linea sul fronte della valorizzazione della cultura sarda. E se questa è solo la premessa è certo che il risultato sarà all’altezza delle aspettative. L’hanno intitolato “Sardu e inglesu cara a cara” per rimarcare il fatto che non si tratta di una grammatica, ma di un pratico manuale di conversazione che, saltando a piè pari l’italiano, mette a confronto il sardo, quello della limba comuna, con l’inglese. Per realizzarlo ci hanno lavorato due insegnanti dell’istituto di via Cedrino, Maria Antonietta Meloni e Clara Farina, con il coordinamento di Tore Sfodello e lo stimolo costante degli studenti della seconda I che durante un intero anno scolastico hanno collaborato fattivamente alla composizione del manuale.

Grafica accattivante, colori vivaci ed esercizi ripartiti per sezioni che simulano la situazioni più disparate, partendo dalle “abitudinès de cada die” o “daily habits” fino ad arrivare a scuola “in scola/at school”. Esempi chiari di brevi conversazioni, corredati da schemi da riempire e arricchiti da un apparato iconografico realizzato “in casa” dagli stessi autori con il coinvolgimento diretto degli studenti. L’intento degli autori non era solo quello di creare uno strumento didattico utilissimo per le finalità della scuola, ma anche contribuire in modo pratico a rendere dignità alla lingua e alla cultura sarda. «La tecnica impiegata per realizzare il manuale – hanno spiegato infatti Maria Antonietta Meloni e Clara Farina – è quella indicata dai documenti del Consiglio d’Europa per l’insegnamento delle lingue straniere».

Il sardo come l’inglese, dunque, per arricchire ulteriormente il dibattito sul tema sempre attuale del plurilinguismo «che rappresenta – come ha fatto notare il rettore Mastino, citando il compianto Giovanni Lilliu – l’unica strada percorribile per realizzare una comunicazione che non sia univoca». Al riguardo va rimarcato il fatto che nel volume non c’è un termine in italiano e questo di per sé è un elemento di novità. Tra le sezioni che compongono il volume merita una citazione speciale quella intitolata “A giru in sa tzidade mea/around my town” in cui si ritrovano, tradotti in inglese direttamente dal sardo, immagini e didascalie relative ai fatti più importanti, una mini storia di Sassari raccontata in pillole che rievoca vicende e feste, ma anche personaggi storici noti.

Un lavoro meticoloso e originale pensato con finalità didattiche, ma che non mancherà di appassionare anche il lettore curioso e attento. Tra i testi e le immagini del manuale (gli autori preferiscono definirlo semplicemente un quaderno) filtra anche il ruolo importante dell’istituto alberghiero, con le sue strutture, le cucine, ma soprattutto l’impegno nella salvaguardia e nella valorizzazione delle produzioni tipiche, terreno su cui da qual che tempo la scuola diretta da Roberto Cesaraccio, è particolarmente impegnata.

tratto da lanuovasardegna.gelocal.it

Al Riff vincono le donne afghane: più libere in prigione che a casa.

Come si vede da dietro un burqa? E’ come guardare da dentro una gabbia. Una scena da No burqas behind barsIl Riff, il Rome Independent Film Festival, ci saluta alla 14esima edizione con il 13esimo vincitore, “la Polonia dei sentimenti” di The girl from the wardrobe di Bodo Kox, su oltre 100 pellicole in concorso (corti, lunghi e doc) da 40 Paesi. Ma il cuore del Riff sono i documentari, e, meritevolmente, ha vinto No Burqas behind bars di Nima Sarvestani. La regista è iraniana e la produttrice, Maryam Ebrahimi, svedese.

Fuori casa, i burqa coprono le donne afgane dalla testa ai piedi, mascherando la loro identità, rendendole entità senza volto e senza voce nella società. Eccetto che in prigione”.

Prigione di Takhar. 40 donne. 34 bambini. 4 celle. Nessun burqa. Questo documentario fa entrare gli spettatori in uno degli ambienti più riservati al mondo: la sezione femminile di un carcere afgano. Le condizioni di vita qui dentro riflettono le condizioni di vita, lì fuori, delle donne in Afghanistan: un vero specchio, una realtà ribaltata che rende auspicabile il carcere rispetto a una non vita. Attraverso le storie personali di tre prigioniere, si svelano tutte le contraddizioni del dramma dei “crimini morali”, usati per controllare e limitare la vita delle donne. “Il film mostra come coloro che sono fuggite scontino una pena maggiore rispetto a chi ha commesso omicidio”.

La maggior parte delle donne è in carcere per “fuga da casa”crimine morale per cui si possono scontare più di 10 anni – 400 detenute in crescita, donne con un’aspettativa di vita di 45 anni (Rapporto Amnesty 2012). Fuga di casa significa “fuga dal marito”, “ma nessuno si ferma a pensare cosa significhi per noi, la legge non capisce le donne”, dice Sara, una delle protagoniste, dietro le sbarre a 16 anni per una fuga d’amore, da un matrimonio combinato. “A quell’età non siamo viste come bambine, già si sposano a 10 anni”. Sara sconta tre anni, nel documentario ne ha quindi 19, ma effettivamente sembra una donna di 30.

Probabilmente è già l’effetto delle piccole ma consistenti modifiche al codice penale, da poco approvate dal parlamento afgano, che aiutereranno il “delitto d’onore”, permettendo agli uomini di picchiare mogli, bambine e sorelle senza paura di poter finire in prigione, un passo indietro dopo anni di progressi. Il provvidemento vieta inoltre ai parenti dell’esecutore della violenza di testimoniare contro. Perseguire un marito o un padre per violenza domestica diventa così praticamente impossibile. Perché la legge entri in vigore manca solo la firma del presidente Karzai. Forse il problema sarà intanto rinviato se farà come nel 2009 quando in extremis bocciò una legge che legalizzava lostupro compiuto dal marito per “diritto nuziale”.

6 anni di prigione per omicidio, 15 anni per fuga, la storia più allucinante, quella di Sima, forzata al matrimonio a 10 anni e 5 figli nel mentre che ne ha 20. In prigione, con tutti i suoi bambini: il suo crimine consiste nell’essere scappata da un marito violento che già aveva assassinato una delle sue altre mogli. “Quando con un bastone uccise anche uno dei suoi figli, sono fuggita con l’altro mio figlioccio e i miei”. Il marito continua ad andarla a trovare solo per ammonirla, talvolta percuoterla, arriva a minacciare di morte il figlio, che aiutò la moglie a “scappare”. Dove poi? A casa dei genitori.

All’interno del carcere nessuna ritorsione o violenza, come si potrebbe supporre nel più classico immaginario cinematografico, tra le donne regna un certo rispetto e l’aiuto reciproco. “Sembra difficile da credere”, dirà Sara tempo dopo, “ma ero più preoccupata di tornare a casa che di essere imprigionata. Io e le altre ragazze eravamo come una famiglia, ci siamo occupate l’una dell’altra perché la maggior parte di noi stava vivendo la stessa cosa. E siccome eravamo tutte donne non avevamo la paura costante di essere aggredite“. Sara è l’unica con un’istruzione, scrive lettere per le sue compagne. Durante le riprese viene scarcerata: è l’ottavo giorno di Saur (Aprile), quando si festeggia la vittoria dei mujaheddin, i patrioti contro i sovietici, durante la rivoluzione del 1992. In quel giorno il Presidente può concedere la grazia. Ha aspettato guardando Javid, il suo innamorato scappato con lei, da una fessura che aveva fatto nel bagno. I due si scambiavano lettere d’amore, utilizzando i bambini come messaggeri. Si promettevano amore e matrimonio, altrimenti il fratello avrebbe potuto uccidere Sara per il disonore. Lei gli chiedeva di mandargli i suoi panni sporchi, aveva tutto il tempo di lavarli con gioia e devozione, “quello che sogno è lavare i vestiti di Javid a casa nostra”. Almeno una storia sembra finire bene, finché l’ultimo giorno lui le scrive che non può prometterle di sposarla. I due si incrociano fuori dal carcere, lei ha il burqa e non può nemmeno guardarlo negli occhi.

L’ultima storia è quella di Najibeh, la pasionaria che litiga con tutti, scappata dal marito incinta di due mesi e condannata a 10 anni, alla fine è costretta a vendere il suo unico figlio, nato lì dentro, perché senza soldi per sfamarlo. Sostiene che le guardie li rubino ai detenuti, ma qui le donne non sembrano aiutarla. Najibeh è delle tre la figura che rimane più ambigua, dolcissima, vitale e sempre sul filo dell’autodistruzione.

Una volta conosciute le storie si capisce il risultato paradossale, donne che piangono quando lasciano il carcere, le possiamo  vedere in faccia, talvolta anche i capelli. Il motivo, che sicuramente ha anche a che fare con l’esistenza stessa del documentario, sta in un’altra opposizione a specchio tra prigione e vita. Gli uomini che controllano le donne, le guardie, sembrano uomini ragionevoli. Il direttore del carcere un illuminato, un soldato d’altri tempi “contrario ai matrimoni combinati che non fanno altro che aumentare l’astio tra le persone, aumentando le fughe”. Lui che le rinchiude sembra capire le donne, in effetti. Ascolta Sima, spaventata dal marito, e si offre di parlarci per spronarlo a trattarla in modo degno. Cosa che oltretutto sembra funzionare.

Ma cosa è successo a Sara? In un’intervista a The Debrief scopriamo: “Mio zio in un primo momento cercò di buttarmi fuori di casa per la vergogna, poi mi chiuse in una stanza, mentre i miei cugini iniziavano a pianificare come uccidermi. Fortunatamente Nima, la regista, preoccupata per la mia scarcerazione, mi aveva dato un cellulare. L’ho chiamata disperata, lei e Maryam si sono confrontate con le guardie carcerarie persuadendole a intervenire”. Con il loro aiuto Sara ha ottenuto un passaporto e ora vive in Svezia, Maryam sta documentando la sua assimilazione in uno dei Paesi più moderni ed egualitari in cui vivere. “Non riesco a spiegare come diversa la mia vita è adesso”, si limita a dire Sara, “ora sono molto felice”.

Ma poi c’è Latife e molti altri nomi – tutte sopportano storie che mostrano la forza interiore e la dignità dell’essere umano quando lei affronta condizioni di vita oscene”.

tratto da piuculture.it

Arabo e cinese: le lingue più importanti del mondo

Arabo e cinese sempre più di pari passoDi Wang Shuo. Middle East Cn (09/03/2014). Traduzione di Claudia Avolio.

“Cina ed Egitto sono buoni amici, testimoni di intensi scambi bilaterali che si protraggono da lungo tempo”: così ha definito i rapporti tra i due Paesi l’ambasciatore cinese al Cairo, affermando che Pechino si impegnerà ancora di più nel promuovere lo studio della lingua araba. L’ambasciatore Song Aiguo ha tenuto un discorso nella cornice di un seminario organizzato dall’associazione Amicizia Sino-Egiziana dal titolo “La lingua cinese e gli orizzonti di cooperazione tra Egitto e Cina”.

Nelle sue parole, “il linguaggio svolge un ruolo fondamentale nell’avvio della comunicazione tra persone e nazioni”. Song Aiguo ha definito la lingua araba e quella cinese come tra le più importanti del mondo, che godono di una antica storia e sono utilizzate in vastissime aree. “Ho notato che molti degli egiziani che parlano cinese lavorano in aziende cinesi in Egitto,” ha aggiunto l’ambasciatore, “e che al contempo sono molti i cinesi a studiare e lavorare in Egitto”.

Ha ricordato poi che la Cina ha esteso l’insegnamento della lingua araba in diverse delle sue università fin dagli anni ’50 su invito dell’ex-premier Zhou Enlai. Quest’ultimo, infatti, prestava molta attenzione all’insegnamento dell’arabo e delle altre lingue straniere di pari passo con la presenza sempre maggiore della Cina negli affari asiatici e globali, soprattutto dopo la Conferenza di Bandung.

L’ambasciatore Song Aiguo ha precisato che entrambe le parti – quella egiziana e quella cinese – sono interessate all’insegnamento delle lingue e stanno lavorando per rafforzare e incrementare gli scambi economici e commerciali attraverso maggiori sforzi nello studio della lingua araba e cinese. Nelle sue parole, i Paesi in via di sviluppo con una popolazione imponente come Cina ed Egitto devono puntare sull’industria e sull’agricoltura moderna.

Ha concluso dicendo: “Negli ultimi anni Cina ed Egitto hanno firmato una serie di accordi, ma mi sono reso conto che ci mancano degli specialisti in lingue straniere per avviare bene degli affari. Sono fiducioso che in futuro ce ne saranno molti di più, dopo che avremo lavorato insieme per sollevare la questione dell’insegnamento della lingua ai più alti livelli”.

tratto da arabpress.eu

Ecco chi è la donna più potente del mondo arabo

Arabian Business (04/03/2014). La rivista CEO Middle East ha pubblicato la lista delle 100 donne più potenti in tutto il mondo arabo.

In cima alla lista troviamo Sheikha Lubna al-Qasimi, ministro per il Commercio Estero degli Emirati Arabi Uniti, che si è aggiudicata il primo posto per il terzo anno consecutivo. Insieme a lei sul podio, due figure femminili dell’Arabia Saudita, rispettivamente Lubna Olayan, presidente della Olayan Financing Company, e principessa Amira al-Tawil, vice-presidentessa della Alwaleed Bin Talal Foundation.

Tra le 100 donne nella lista, ad aver guadagnato il posto più alto come new entry è Sheikha Maha Mansour Salman Jasim al-Thani, avvocato del Qatar famosa per essere diventata il primo giudice donna del Paese nel 2010.

Quanto alle nazionalità, gli Emirati Arabi Uniti hanno registrato il numero più alto di posizioni nella lista del 2013, contando in totale ben 44 nomi. Le 13 libanesi si sono molto avvicinate all’Arabia Saudita, che ne conta 14. La maggior parte delle donne nella lista, ben il 31%, lavora nell’ambito socio-culturale, mentre il 16% nel settore delle arti e dello spettacolo.

tratto da arabpress.eu

In fila per mangiare


In fila per ricevere gli aiuti alimentari a Yarmuk, un campo profughi palestinese a sud di Damasco, in Siria, il 31 gennaio 2014. (Unrwa/Reuters/Contrasto)

Questa foto è stata scattata il 31 gennaio, nel campo profughi palestinese di Yarmuk, a sud di Damasco, in Siria. Migliaia di persone sono in fila per ricevere cibo e aiuti dagli operatori umanitari dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che si occupa dei profughi palestinesi in tutto il Medio Oriente.

I residenti del campo, circa 20mila persone, vivono sotto assedio dal giugno del 2013 e non hanno accesso ai beni di prima necessità come viveri e medicinali.

La distribuzione degli aiuti nel campo è cominciata il 18 gennaio del 2014, ma poi è stata sospesa per ragioni di sicurezza e il personale umanitario è stato ritirato in seguito a un combattimento avvenuto tra il 7 e l’8 febbraio. Il 20 febbraio è stato concesso agli operatori dell’Onu di tornare nel campo per un’ispezione.

Le condizioni dei profughi palestinesi a Yarmuk sono molto gravi. Dopo la visita al campo il 20 febbraio, il commissario generale dell’Unrwa Filippo Grandi ha detto: “Sono profondamente scosso da quello che ho visto. I rifugiati palestinesi con cui ho parlato sono traumatizzati da quello che hanno vissuto. E molti di loro erano in una condizione di urgente necessità. In particolare mancano cibo e medicinali”.

Il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon ha chiesto al governo siriano di permettere agli operatori delle Nazioni Unite di lavorare nel paese per distribuire gli aiuti e di aumentare la presenza di operatori umanitari sul territorio siriano.

Il 22 febbraio il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato all’unanimità la risoluzione 2139, in cui chiede alle autorità siriane di permettere a tutti l’accesso agli aiuti umanitari.

Il campo profughi di Yarmuk, in Siria, è stato creato nel 1957 e ospita la più grande comunità palestinese della Siria. Si trova a otto chilometri dal centro di Damasco. Durante la guerra civile siriana è stato scenario di intensi combattimenti tra i ribelli dell’Esercito libero siriano e l’esercito regolare di Bashar al Assad.

tratto da http://www.internazionale.it

per info http://www.unrwa.org