Il rifugiato è colui “che temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra” [Articolo 1A della Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati].
Il 20 giugno è la giornata mondiale del rifugiato: da questo stralcio della convenzione di Ginevra si evince che un rifugiato è una persona perseguitata, è una persona che, per motivi politici, religiosi, etnici o altro, è costretto a lasciare la sua casa, la sua famiglia, i suoi amici, il suo paese. Il rifugiato non è un migrante qualsiasi, non è una persona che si muove per cercare un lavoro. Il rifugiato è una persona che fugge, che trema, che è tormentato dalla paura. Il 20 giugno è la giornata che lo ricorda, che ci ricorda che nel mondo esistono più paesi in guerra, paesi stremati da conflitti civili e battaglie sanguinose, che paesi in pace. E’ la giornata che ci ricorda che ci sono migliaia di persone che si mettono in viaggio senza sapere se riusciranno ad arrivare a destinazione o diverranno un corpo senza nome nelle acque dei nostri mari o nel silenzio del deserto. E’la giornata che dovrebbe ricordarci di essere un po’ meno egoisti, di dare una mano quando possiamo aiutare chi ci guarda senza speranza, chi ha perso tutto e arriva in Italia solo con la sua anima lacerata dalle sofferenze, chi ha visto morire un figlio, chi pensa di non farcela più. Ma non si tratta di partecipare agli eventi organizzati dalla propria città, alle manifestazioni o alle proiezioni di immagini già viste e riviste corredate da un succulento aperitivo etnico. Si tratta di ricordarci di loro, degli “invisibili”, tutti i giorni dell’anno e di provare a metterci nei loro panni. Immaginiamo che esploda improvvisamente un conflitto irrisolvibile nel nostro paese. Saremmo disposti ad abbandonare tutto quello che con fatica e sudore abbiamo costruito nel corso degli anni? Ad abbandonare i nostri più cari affetti senza sapere se un giorno avremmo la fortuna di poterli riabbracciare? Saremmo disposti a fuggire senza avere nulla in cambio e soprattutto senza la certezza di un futuro sereno davanti a noi? Io ogni tanto ci penso. E forse sì, forse ci riuscirei, sapendo che è l’unica strada per salvarmi la vita. La morte è lì che mi spia da dietro l’angolo, che mi mette davanti ostacoli insormontabili, ma io devo tirare fuori tutta la mia forza e il mio coraggio per poi non pentirmi di non aver provato ad aiutare non solo me stessa, ma anche tutti quelli che, rimasti nel costante pericolo del mio paese, aspettano mie notizie e i miei aiuti economici da una terra che non conosco. Ma con quanta paura, quanta tristezza lo farei? Un dolore che mi spezzerebbe il cuore in mille pezzi. Un dolore che mi porterei dietro per sempre. Vi invito a riflettere su queste mie parole e a guardare con occhi diversi quelle persone che arrivano sulle carrette del mare e che erroneamente molti di noi credono siano venuti solo per “rubarci” un lavoro che non c’è. Vi invito a ricordarvi di loro, ogni tanto di far loro un sorriso se li incontrate sui vostri passi, di non essere timorosi nei loro confronti. Perché la parola Accoglienza non rimanga solo una parola.