E’ davvero tanto tempo che non scrivo un mio pensiero in questo blog, ma i mesi passano velocemente e io neanche me ne accorgo, presa dai mille impegni quotidiani e dal lavoro che amo. Oggi, però, sento l’esigenza di fare una riflessione. In questi giorni sono successi diversi episodi che ho vissuto in prima persona, di cui ho ascoltato i racconti, di cui ho letto articoli sconclusionati. Sono successi episodi che mi hanno toccato nel profondo perché coinvolgono persone che vedo ogni giorno, con cui cerco di instaurare una relazione, che cerco di conoscere più a fondo per migliorarmi e per crescere sia professionalmente che umanamente. Non posso giudicare, non riesco neanche a mettermi completamente nei loro panni perché ho la fortuna di non aver mai affrontato ciò che hanno dovuto sopportare, perché ho l’immensa fortuna di essere nata in Italia. Non posso però più sentire la frequente litania di questi giorni, mi ha stancato. “Aiutiamoli a casa loro”. Ma quale casa? Vorreste provare a passare anche un solo giorno vivendo in una baracca o per strada? Vorreste provare le intense emozioni di attraversare il deserto su un camion senza acqua né cibo costretti a vendere anche il vostro corpo pur di sopravvivere e arrivare in Libia? Oppure vi piacerebbe essere imprigionati subendo le più dolorose violenze e torture o che le infliggano ai vostri figli o alle vostre mogli davanti ai vostri occhi? E quando, per puro caso o fortuna, riuscite ad arrivare nell’Europa dei sogni, quella di cui avete tanto sentito parlare, quella che finalmente potrà aiutarvi a sanare le vostre ferite, scoprite che dovete far fronte a sguardi duri e parole cattive, a ” no, non ti posso affittare la mia casa, sei straniero e non hai neanche un lavoro”, a “ma di che lamenti? Prendi pure i soldi e non fai niente… ma non potevi andare in un altro paese o restare a casa tua?”… e lì che cominci a pensare di non farcela, sarà troppo difficile, ti tornano in mente i ricordi di quel viaggio che non sai come sei riuscito a sopportare, di quelle violenze che hai subito, di quel mare che ti ingoiava. Ed è proprio in quella Europa che sognavi che inizia il peggio. E’ proprio in quella Italietta che ti guarda di traverso che farai fatica a sentirti accolto. E allora cosa ti rimane? Nulla, solo disperazione, tanto dolore e nessuna speranza. Ti capisco perché cerco di aiutarti ogni giorno, ma so anche che c’è chi non riesce a vedere al di là dell’apparenza, al di là di uno sguardo assente o talvolta aggressivo, al di là di un muro compatto che nasconde una storia che nessuno vorrebbe ascoltare.
Questa è solo una riflessione, di una che fa un lavoro difficile, ma che ogni tanto cerca di farsi qualche domanda in più, aprendo gli occhi e le orecchie e gustandosi uno di quei rari sorrisi che aleggiano su quei volti distrutti.
“I battiti cambiavano da persona a persona, svelandone la vecchiaia o la giovinezza, la gioia, il dolore, la paura o il coraggio, ma fra le razze e le nazionalità non c’erano differenze.” (L’arte di ascoltare i battiti del cuore, J.P. Sendker). Questo libro, che sto leggendo in questi giorni, tratta della storia romanzata del giovane Tin Win, un ragazzo birmano, che, a causa della sua cecità, affina il senso dell’udito che gli permette di distinguere suoni che i vedenti non riescono a percepire, suoni come il battito del cuore delle persone. Una storia surreale in alcuni passaggi, ma che mi ha portato a riflettere su quanto a volte il nostro metro di giudizio, la nostra percezione degli altri siano superficiali e influenzati da stereotipi o credenze infondate. Il cuore: l’organo centrale, fondamentale per la nostra vita. A volte, quando abbiamo paura, i suoi battiti accelerano, spesso talmente tanto che abbiamo l’impressione che possa scoppiare. Lo stesso accade quando siamo innamorati o quando proviamo un forte dolore. Il cuore è un organo che ci accomuna tutti. E se ne accorge anche Tin Win. Dai battiti che ascolta non riesce a percepire le differenze di razza, di religione, di nazionalità, il colore della pelle, ma solo le emozioni e le età delle persone. In questo periodo così difficile vorrei che qualcuno ci insegnasse ad ascoltare i battiti del cuore, vorrei chiudere gli occhi, vorrei che il mondo chiudesse gli occhi e che ascoltasse i cuori impauriti di Parigi così come quelli del Mali e dell’Egitto, i cuori spaventati della Turchia e quelli stanchi e ormai in fin di vita della Siria. Vorrei che il mondo ascoltasse i cuori freddi e inespressivi di chi ha compiuto e di chi continua a compiere atrocità in questi e in molti altri paesi unicamente per motivi politici. Sono convinta che se fossimo come Tin Win sapremmo riconoscere un cuore pio: un cuore calmo, tranquillo, che ha trovato la pace in Dio, come lo è quello di tanti musulmani o di tanti cristiani, ebrei, induisti, che seguono la propria strada di fede senza lasciarsi sopraffare da ciò che non ha niente a che vedere con questa. Gli occhi sono fondamentali, ma a volte ci ingannano. Quando mi trovo ad accompagnare gli utenti stranieri del progetto per cui lavoro e cammino con loro per strada o siamo seduti in macchina, sento decine di sguardi indagatori, decine di sguardi sospettosi, impauriti. Le persone si allontanano, si guardano alle spalle, sobbalzano al minimo rumore, controllano che non abbiano borse o zaini. Quanto vorrei non sentire quegli occhi puntati addosso, quanto vorrei urlare la mia indignazione, la mia rabbia, quanto vorrei che quello che sta succedendo non terrorizzi le persone più del dovuto e non le porti a giudicare con cattiveria chi ha il diritto di essere accolto e protetto. Quanto vorrei che non ci fossero muri sbarrati e frontiere chiuse, quanto vorrei che non si rispondesse alla violenza con altra violenza. Sono sogni di una che ha sempre lavorato per e con i migranti, che ha provato ad ascoltare i loro cuori prima ancora di guardarli in faccia. E che questa volta non ha voluto raccontare la storia di uno di loro, ma una storia che potrebbe essere quella di tutti noi.
Venti anni di esperienza e un lungo percorso “africano” in seno a Reporter sans Frontières, hanno portato il giornalista